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“Le fondazioni, le accademie e gli istituti culturali italiani di fronte alle sfide del nostro tempo” Intervento di Franco Ippolito

AICI Conferenza Nazionale
Italia è Cultura
Le sfide degli anni ’20

Napoli 10 novembre 2022

Le fondazioni, le accademie e gli istituti culturali italiani di fronte alle sfide del nostro tempo.

Intervento di Franco Ippolito

Presidente della Fondazione BASSO

1. Sono molteplici le sfide che il nostro tempo ci presenta, strettamente intrecciate alle tante crisi (economica, ecologica, sociale, tecnologica…) che richiedono interventi urgenti ma non emergenziali, bensì strutturali e di fondo. Sono tante che per il dizionario inglese Collins la parola dell’anno 2022 è “permacrisis” (crisi permanente), neologismo che descrive “un continuo stato di incertezza e preoccupazione per gli sconvolgimenti causati da Brexit, pandemia, maltempo, guerra, instabilità politica, crisi dell’energia, inflazione”.

Ovviamente l’allarme più forte proviene dalla tragedia della guerra scatenata nel cuore dell’Europa dalla Federazione russa in violazione di ogni norma di diritto e di civiltà. Guerra che sta creando atroci sofferenze al popolo ucraino, ma anche crisi del sistema e del diritto internazionale, e tensioni e contrasti all’interno dell’Unione europea sia per i problemi di sicurezza, sia per l’esplodere della crisi energetica, che ha sostanzialmente interrotto la transizione ecologica.

Dell’Europa e del suo futuro, con stretta connessione alla guerra in corso, abbiamo discusso in modo approfondito il 13 settembre scorso, in un interessante convegno promosso dall’AICI e dal presidente Valdo Spini, con la partecipazione di Giuliano Amato e di Elisabeth Guigou.

In questa Conferenza vogliamo procedere nella nostra riflessione sulle sfide che derivano dalle crisi in atto, riflessione già cominciata a Ravello con riferimento alla necessità di preservare e rilanciare il patrimonio culturale europeo, proseguita poi a Firenze con l’analisi di politiche culturali capaci di contrastare la caduta di civiltà prodotta dalla trasformazione del Mediterraneo da incrocio di culture in un immenso cimitero, nel quale continuano a scomparire e comunque a soffrire decine di migliaia di persone, con i loro sogni e le loro speranze di sopravvivenza e di vita, come non si stanca di ricordare Papa Francesco.

2. Oggi occorre allargare la riflessione alla crisi che da anni sta investendo la democrazia in Europa e nel mondo e che segna un ribaltamento rispetto alle tendenze della fine del secolo scorso.

Tutti gli indici delle maggiori agenzie di ricerca attestano un arretramento del livello di democrazia in molti paesi. Secondo il rapporto annuale pubblicato da “Freedom House”, 73 paesi nel 2020 hanno registrato un arretramento, riportando un punteggio per gli indici di libertà inferiore all’anno precedente. Solo 28 ne hanno ottenuto uno più alto. “Dato inquietante, il rapporto ha rilevato che il 75% della popolazione mondiale vive in paesi che hanno sperimentato una riduzione dei diritti degli elettori” (M. Naim in “Il tempo dei tiranni”, Feltrinelli 2022, p. 318).

Per la prima volta in questo secolo” – annota Timothy Garton Ash (“The future of Liberalism” in Prospect 9-12-2020) – “tra i paesi con più di un milione di abitanti, ci sono meno democrazie che regimi non democratici”.

All’inizio del secolo, la situazione era ben diversa e tutti i governanti (compresi quelli generalmente ritenuti autocrati) rivendicavano la democraticità del proprio regime politico.

Molto dipende dalla definizione di democrazia. Se democrazia vuol dire soltanto procedura elettorale, conferimento del potere con investitura dal basso, a seguito di elezione, possono rivendicare di essere governanti democratici Putin ed Erdogan, Bolsonaro e Modi. Non possiamo dimenticare peraltro che, nella prima metà del ‘900, andarono al potere in Europa, a seguito di elezioni maggioritarie, feroci dittatori, causando immani tragedie e rovine per paesi e popoli.

La democrazia non può ridursi a procedura elettorale, innanzitutto perché questa è un misuratore autentico degli orientamenti sociali soltanto in presenza di una società civile vigile e impegnata, di una cittadinanza partecipe e informata, ciò che richiede un’opinione pubblica pluralista e una stampa libera, non ricattata o condizionata dai governanti. (Si pensi, come eclatante esempio negativo, alla Federazione russa dove Putin per avere il controllo assoluto dell’informazione stabilisce il divieto penale di utilizzare sui media la parola guerra, sostituita dall’espressione “operazione speciale”).

Società civile viva, cittadinanza consapevole e impegnata e stampa libera presuppongono pluralismo dei poteri e garanzia dei diritti dei cittadini. Esattamente ciò che fu scritto 250 anni fa nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti del 1789: “Ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri fissata, non ha una costituzione”.

Ma non siano di fronte soltanto alla diminuzione numerica degli Stati democratici rispetto alla situazione di inizio secolo. Oggi molti leader autocrati non fanno neppure finta di apparire democratici, anzi contestano apertamente la democrazia come sistema inadeguato a risolvere i problemi dell’oggi (basta leggere e prendere sul serio i discorsi di Putin degli ultimi anni o analizzare i comportamenti di Erdogan nel proprio Paese nei confronti della stampa e delle istituzioni di garanzia). Altri, in Ungheria e in Polonia, ne danno un’interpretazione riduttiva e minimale, coniugandola a impostazioni nazionalistiche fondate sull’identità etnica o religiosa o politica, fino a coniugare la singolare espressione di “democrazia illiberale”, ardito e inverosimile ossimoro che semplicemente intende coprire la negazione dei fondamenti dello stato di diritto: la libertà e i meccanismi democratici di controlli e contrappesi, dalla stampa libera alla indipendenza della magistratura.

3. La tenuta della democrazia non è minata soltanto dall’esterno, da parte dei regimi autocratici o illiberali, ma – ciò che più deve preoccuparci – anche da una crisi di fiducia interna. Un segnale palese è la crescente astensione dal voto, che evidenzia la caduta della partecipazione, della cittadinanza attiva, del senso di appartenenza, della fiducia nella rappresentanza politica.

Ma c’è qualcosa di ancora più profondo e allarmante, costituito dalla crescente polarizzazione sociale e culturale.

Basti pensare alla spaccatura della società civile in Brasile (confermata dal recente risultato elettorale e dalle barricate e dai blocchi stradali dei sostenitori di Bolsonaro per contestare la legittimità del voto che ha ridato la presidenza a Lula) e, peggio ancora, a quanto accadde il 6 gennaio 2021 a Washington, l’assalto a Capitol Hills con lo scopo di bloccare il passaggio dei poteri presidenziali da Trump a Biden.

Lo storico Mattew Dallek, docente alla George Washington University ha scritto qualche giorno fa sul New York Times che “l’estremismo violento (come l’insurrezione del 6 gennaio) è una delle minacce più pressanti cui devono far fronte oggi gli Stati Uniti” (citato da P. Garimberti – “Il populismo genera violenza”, in La Repubblica 2.11.20222).

Ma anche al di là dell’estremismo violento, analisti seri e non pregiudizialmente schierati, evidenziano la progressiva erosione della democrazia in molti paesi, a cominciare da quelli di più antica tradizione democratico come gli Stati Uniti, e il palesarsi di tensioni tra diverse componenti della società, aggravate dall’esplosione delle disuguaglianze nell’ultimo trentennio, determinata dalla globalizzazione neoliberista che ha prodotto sfiducia nella democrazia, disillusioni, risentimenti, rancori, contrapposizioni identitarie.

Quando le differenze politiche arrivano a fondarsi sull’identità, il dibattito passa dall’essere discussione sulle idee a un conflitto tra visioni incompatibili di una vita degna. Se il mio gruppo incarna tutto ciò che è giusto, nobile e buono e il tuo rappresenta tutto ciò che è sbagliato, meschino e cattivo, difficilmente potrà avviarsi tra noi un confronto civile. Non ho più bisogno di imparare a convivere pacificamente con te, malgrado le nostre divergenze; piuttosto, il mio obiettivo è sconfiggerti ed estrometterti dalla scena politica una volta per tutte” (in Naim, cit. p. 115).

Si tratta di tendenze che vanno emergendo e si rafforzano anche nei paesi ritenuti di democrazia consolidata.

Per non urtare suscettibilità di diverso segno, non utilizzo riferimenti italiani, ma quelli provenienti dagli Stati Uniti: “Nel 1960, solo il 5% degli elettori affermava che gli sarebbe dispiaciuto se il proprio figlio avesse sposato qualcuno del partito politico rivale; nel 2010, circa il 50% dei repubblicani e il 30 % dei democratici sostenevano che un’unione del genere li avrebbe turbati. Già nel 2017, però, il 70% dei democratici dichiarava nei sondaggi che non avrebbe mai potuto avere un appuntamento con un sostenitore di Trump. E nel 2020, l’83% di coloro che avevano un’opinione molto sfavorevole del presidente si sarebbe rifiutato di uscire con uno dei suoi sostenitori.” (cit. p. 116).

La diversità politica – che in ogni società democratica è sintomo e misura del pluralismo – sotto la spinta delle disillusioni, delle paure, dei risentimenti, dei rancori reciproci si va connotando di differenti identità contrapposte tra le diverse componenti sociali. E le contrapposizioni identitarie producono polarizzazione politica, con pericolose rotture della coesione delle comunità, soprattutto quando i diversi attori politici diventano poco inclini alla tolleranza reciproca e propensi a negare legittimità all’avversario politico, vivendolo (e facendolo vivere ai propri seguaci) come nemico politico.

Non intendiamo affatto sottovalutare il rilievo dell’identità per la tenuta di una comunità politica e sociale, ma occorre ribadire che l’identità è un valore positivo soltanto se inclusiva e connotata da valori positivi, non quando è volta ad escludere gli altri, i diversi da noi, declinando i diritti universali (che competono a ogni persona) in privilegi che escludono gli altri. L’identità sicura è quella capace di dialogo, di confronto e di condivisione con gli altri. Identificare il diverso come nemico – tanto più quando cerca salvezza dalla difficoltà e dai pericoli – oltre che disumano, è segno di incertezza e insicurezza della propria stessa identità.

Non illudiamoci che queste derive rimangano confinate in Brasile e negli Stati Uniti, essendo ben nota la propensione dei paesi europei (e dell’Italia in particolare) a contagiarsi delle tendenze provenienti soprattutto dal Nord America.

Per l’Italia non segnalo alcun episodio specifico. Ognuno ha seguito gli avvenimenti pubblici degli ultimi tempi, cogliendo la crescita del livello di aggressività reciproca tra diversi esponenti politici, senza dire del linguaggio di odio diffuso sui social-media.

A questo proposito, sono impressionanti i contenuti di un DataRoom di M. Gabanelli e S. Ravizza (Corriere della Sera 10-11-2021): da un’inchiesta di Vox-Osservatorio sui diritti (genn.-ott. 2021) emerge che i social sono sempre più debordanti di linguaggio di odio, che “colpisce con 1 tweet ogni due minuti contro le donne, 1 ogni quattro contro i musulmani, 1 ogni cinque contro i disabili, 1 ogni dieci contro gli ebrei, 1 ogni 11 contro gli omosessuali e 1 ogni 15 contro i migranti”.

Gli insulti e le manifestazioni di odio e discriminazione su Facebook e Twitter hanno a bersaglio per il 27% le donne, per il 42% gli immigrati, per il 47,6% i Rom, per il 55% le minoranze religiose.

Sugli oltre 22 milioni di post/tweet di pagine/profili pubblici relativi al mondo della politica, dei sindacati, dell’informazione e del welfare scaricati da Amnesty International, quelli neutri o positivi hanno ottenuto in media 529 like, 130 condivisioni e 101 commenti; quelli di odio 3.211 like in media, 2.193 condivisioni e 1.042 commenti.

Non posso, tuttavia, fare a meno di menzionare specificamente che in questi giorni sono ripresi con allarmante frequenza i messaggi di morte e gli insulti contro una persona mite che, con la sua vita di sofferenza, di memoria e di impegno, non tace il proprio turbamento dinanzi alla caduta del confronto civile e al disprezzo della scienza sanitaria: la senatrice a vita Liliana Segre, una delle poche autorità morali del nostro Paese, sotto scorta da 3 anni proprio per i messaggi minacciosi che riceve continuamente.

4. In questa crisi profonda delle nostre società, gli istituti e le fondazioni di cultura hanno un ruolo sempre più importante da esercitare, con rinnovato impegno e con piena consapevolezza. E l’AICI – una rete in crescita di numero e di rappresentatività, un insieme articolato e ricco di competenze, di pluralismo e di differenze – deve assumersi anche il compito di diffondere e far crescere tale consapevolezza collettiva.

La sua natura, il suo modo di essere, il contenuto valoriale delle sue molteplici e differenti componenti possono e devono costituire un microcosmo culturale esemplare per la società, in quanto portatrice di cultura e di memoria collettiva che può nutrire e alimentare la politica, sprigionando antidoti positivi per contrastare contrapposizioni pregiudiziali e identitarie.

Di fronte ai rischi che vive la democrazia, gli istituti di cultura non possono limitarsi a curare la conservazione del loro patrimonio e dei loro archivi, ma devono proporsi un compito più ambizioso (a cui la scuola e l’università sembrano purtroppo avere rinunciato): concorrere alla costruzione della cittadinanza, far vivere e rilanciare la memoria del passato e dei momenti fondativi del presente, i valori alti che la storia del paese ha via via prodotto e sedimentato al fine di rilanciare la democrazia costituzionale, che caratterizza specificamente la cultura politica europea e quella italiana in particolare.

Ovviamente ogni istituto e fondazione con le proprie scelte, con la propria autonomia e con la propria soggettività, come ha sottolineato Valdo Spini. Ogni patrimonio, ogni archivio costituisce un pezzo rilevante di memoria, ricorda scontri e incontri, tensioni e pacificazioni, cadute di civiltà e riprese di valori.

In politica – ha scritto Gaspare Nevola, parafrasando l’esergo posto da Gabriel Garcia Marquez all’inizio della sua autobiografia – il passato non è semplicemente ciò che è accaduto o ciò che abbiamo vissuto, ma quello che una società ricorda, e come lo ricorda e come racconta e vive quello che ricorda” (in “Luci e ombre di una democrazia antifascista – Viaggio nella Repubblica”, Carocci 2022, p. 18).

E’ dall’insieme di quelle memorie, di quei racconti e di quelle testimonianze valorizzate e fatte conoscere che può nascere una nuova e più tollerante dimensione della politica, una ripresa di confronto produttivo che metta al bando ogni violenza senza negare il conflitto democratico, una possibilità di reciproca fiducia in una comunità democratica non solo aperta, ma fecondata dalla diversità, per costruire un futuro più condiviso, nel rispetto dei diritti di ciascuno e nell’osservanza dei doveri di solidarietà che lo stare insieme richiede.

Ciò implica la valorizzazione delle nostre rispettive soggettive diversità, ma naturalmente anche la condivisione di un comune nucleo valoriale di base, che la Costituzione della Repubblica, nella sua prima parte, ha indicato come fondativi e non modificabili: democrazia, diritti umani inviolabili e doveri di solidarietà politica, economica e sociale, pari dignità sociale di ogni persona, uguaglianza formale e sostanziale, pluralismo politico, sociale e culturale …

La vitalità dei nostri istituti culturali e il ruolo propulsivo dell’AICI si misurerà con l’esercizio di questo attivo impegno di contrasto della crisi che rischia di disgregare la società italiana ed europea e di rilancio del confronto democratico per incanalare e ricondurre le varie tensioni sociali e identitarie verso un sistema di democrazia piena che inveri le promesse costituzionali.

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