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“La conquista dei diritti. La visione della storia di Lelio Basso” di Mariuccia Salvati

La conquista dei diritti. La visione della storia di Lelio Basso

di Mariuccia Salvati

Traccia dell’intervento di Mariuccia Salvati in occasione della presentazione del volume di Emanuele Felice, La conquista dei diritti. Un’idea della storia (il Mulino, 2022) organizzata dalla Fondazione Basso e dalla Casa della cultura di Milano il 20 maggio 2022.

Parto da un aneddoto personale, che interesserà soprattutto coloro che ci seguono da Milano. Come alcuni potrebbero ricordare, negli anni ’50 e ’60 la Casa della cultura annoverava tra i suoi frequentatori e protagonisti anche Lelio Basso (già giovanissimo collaboratore di Gobetti nel primo dopoguerra, poi oppositore del fascismo, a capo del Psiup nella Resistenza, segretario generale e membro della direzione del PSI, ma esautorato nei primi anni ’50). Nel 1958, Basso ottiene dal partito il permesso di fondare una rivista, Problemi del Socialismo (che ancora oggi, prosegue, con il titolo “Parole-chiave” e che ha sede presso la Fondazione Basso istituita a Roma nel 1974). Fino al ’68 le riunioni della rivista si facevano a Milano, in un grande scantinato, a corso Venezia 24, dove Basso aveva raccolto una ricchissima biblioteca che progettava di ingrandire, ordinare e aprire al pubblico (cosa che riuscirà a fare a Roma, dove si trasferirà alla fine degli anni ’60) legandola alla nuova Fondazione, che nasce formalmente nel 1974.

Ecco, in quella sede io ho lavorato, tra il 1962 e il 1965, come bibliotecaria factotum (scelta che mi è costata una rottura con la famiglia seguita dalla decisione di trasferirmi a Roma…). Ma da Basso io ho appreso (era un grande maestro, non a caso i suoi comizi erano famosi) quello che allora nessun accademico avrebbe potuto insegnarmi: cioè una visione della storia che, intrecciandosi con la sua cultura marxista, era di lungo periodo, interdisciplinare e legata a periodizzazioni non tanto istituzionali, quanto socio-economiche.

Che cosa c’entra con il libro di Felice? C’entra, perché le tappe di una costruzione paradigmatica della storia quale quella qui descritta da Felice sono molto simili a quelle che io ho apprese da L. Basso. Per Basso, allora, negli anni ’60, impegnato non a caso sulle prime edizioni e traduzioni delle opere di R. Luxemburg, l’obiettivo di questa ricostruzione era anche quella di servirsene come filo conduttore nella caccia ai testi originali presso gli antiquari (quei testi si trovavano ancora, anche dai bouquinistes di Parigi). E questo vale per almeno due delle tre traiettorie storiche che Felice individua e descrive.

La prima è quella del liberalismo, che poi si intreccia con il socialismo: dunque, il calvinismo (la tesi di laurea – la seconda dopo giurisprudenza – che Basso aveva scritto in prigione nei primi anni ’30 e sostenuto all’Università di Milano, era incentrata su Otto Bauer, ma non si è mai trovata) e poi il filone della Rivoluzione Francese, e via via… Babeuf, Buonarroti, Owen e S. Simon, Fourier, la rivoluzione del 1848 … per approdare al Manifesto di Marx e Engels e a R. Luxemburg.

Il socialismo, come qui si racconta, ha il suo avvio, anche per Basso, quasi in parallelo con il liberalismo, in epoca illuministica e prende forza con Rousseau: la sua culla è la città, è la fraternité della triade rivoluzionaria, un modello destinato a fallire proprio sui diritti sociali (L. Blanc) (1848), ma solo per il momento. Lo capisce bene Marx (che scrive allora il grande saggio storico Le lotte di classe in Francia), ma anche, nella seconda metà dell’800, il pensiero cattolico e cristiano, il nuovo liberalismo e il socialismo riformista.

Di questo filone fa parte anche, in Inghilterra, su altri presupposti (J. Stuart Mill) il pensiero riformista, che arriverà fino a Beveridge e Keynes: un percorso (l’intervento pubblico) che compie anche Bernstein (su influenza di Engels) nel partito socialista in Germania.

La rivoluzione, tanto attesa, legata alla prima guerra mondiale, come sappiamo, scoppia non nel paese più avanzato – in Germania dove prevale invece la socialdemocrazia- ma in Russia e si propone come la rivoluzione definitiva, con una visione palingenetica. In Russia, al Terrore seguirà la separazione fra comunismo e socialdemocrazia.

Se dopo la seconda guerra mondiale la sfida tra il mondo sovietico e quello occidentale sembra reggere, in realtà non è così per le economie pianificate e, salvo alcuni settori dove più forte era la competizione, l’Occidente si dimostra più riformabile del mondo sovietico, almeno fino a un certo punto.

Dopo la sconfitta dei fascismi, liberalismo e socialismo si incontrano sull’estensione dei diritti dell’uomo che diventano anche dei doveri: il riconoscimento dei diritti arriva anche alle istituzioni manicomiali, cambia lo sguardo (Foucault)

Perché però la socialdemocrazia è andata in crisi?

Qui la maestria dello storico economico si rivela nella descrizione del rapporto tra cicli di estensione di diritti civili e riduzione delle disuguaglianze negli anni ’50-’60. Da lì il prevalere di un orientamento neoliberale. Dahrendrof denuncia presto il grande potere decisionale nelle mani delle multinazionali, con un arretramento di molti paesi sul terreno della democrazia.

Ma proprio dalla crisi del 2008, spiega Felice, potrebbe essere iniziato un nuovo periodo di transizione. E ancora più di recente, proprio il Covid, il valore dalla sanità pubblica, il peso della crisi ambientale, potrebbero avere innescato una nuova sinergia sociale.

Giustamente Felice fa riferimento al Forum Disguaglianze e Diversità, a Mazzucato, a Piketty, come potenziali nomi per un possibile riavvio di un nuovo socialismo.

Dopo il socialismo, l’ultima sfida che l’A. prevede per la storia degli umani risiede nell’ambientalismo e i diritti degli animali, di cui traccia le affascinanti origini in Lucrezio, Virgilio, nel pensiero cristiano, Rousseau, Bentham, Stuart Mill, e più di recente Peter Singer, Martha Nussbaum.

Del resto, “Ognuno di noi si definisce in virtù delle scelte che compie”, scrive Felice con riferimento all’esistenzialismo di Sartre (p. 337). Cioè “agisce come se la storia avesse una meta.”

E infatti, ecco l’ultima pagina: “… non è forse l’umanità sin dagli albori la specie che si distingue dalle altre per una moralità fondata sul sentimento della giustizia, cioè (diremmo oggi) sui diritti e sui doveri? Una moralità resa possibile dal linguaggio parlato? E non sono entrambi figli della cooperazione? Il disvelarsi della storia lungo queste coordinate, dai clan alle tribù agli stati fino alla democrazia universale, sorretta dal progressivo estendersi degli ideali di fraternità, libertà e uguaglianza, è in questo senso la traiettoria politica più autenticamente umana che possiamo percorrere (e per questo più autenticamente ‘naturale’). Ed è l’idea della libertà nello stato di diritto, riletta alla luce delle sfide cui la nostra stessa ragione ci ha condotto: salvare l’ambiente e orientare lo sviluppo tecnologico ai diritti dell’uomo”.

[…] “Ecco finalmente che il gigantesco pendolare della dialettica storica, della coscienza umana, può trovare un centro. Dopo l’epoca della fiducia, nel Sette e Ottocento; dopo il secolo della disperazione, il Novecento, e il rifugio nell’individuo; ora comprendiamo che una sintesi è possibile. Né fiducia né disperazione. Ma il dovere di impegnarsi per dare un significato alla storia umana. Perché sappiamo che quel significato può esserci. E per il fatto stesso di cercarlo, indichiamo una via d’uscita all’assurdo della vita. Indichiamo la rotta di una nuova ragione politica” (p. 339).

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