“Costituzione. Partiti e cultura politica” di Franco Ippolito
Costituzione. Partiti e cultura politica
di Franco Ippolito
Questo testo riprende e sviluppa l’intervento svolto nel seminario Democrazia e partecipazione nell’epoca attuale, organizzato dal Circolo Fratelli Rosselli di Roma presso l’Istituto Sturzo il 10/2/2022, con la presentazione e discussione del libro di G. Pasquino, Libertà inutile. Profilo ideologico dell’Italia repubblicana, Utet 2021.
1. Con questo corposo saggio Gianfranco Pasquino ha voluto scrivere il seguito del Profilo ideologico del Novecento italiano (Einaudi, 1986), nel quale Bobbio aveva ricostruito e analizzato la storia delle idee e delle ideologie della prima metà del secolo scorso. Pasquino ripercorre in modo agile e brillante la storia della cultura politica dell’Italia repubblicana, presentando un’analisi sintetica e acuta delle vicende politiche che si sono succedute dal dopoguerra ad oggi.
Il libro si sofferma sui più rilevanti tornanti politico–culturali che hanno segnato la vita della Repubblica, a cominciare dalla Costituente, seguita dal decennio centrista che operò il congelamento della Costituzione; poi la stagione del centro-sinistra con l’avvio di alcune riforme; la progressiva attuazione della Costituzione e i successivi tentativi di revisionarla e, a volte, di manometterla e finanche di stravolgerla.
Un importante capitolo è dedicato al tema del fascismo e dell’antifascismo, su cui ancora parziale e talvolta distorta è la consapevolezza collettiva, che non è riuscita a fare compiutamente i conti con quell’esperienza. Viene subito in mente il reiterato allarme di Liliana Segre nel constatare come l’indifferenza della maggioranza della popolazione nei confronti delle leggi razziali e razziste del 1938 non sia molto diversa da quella che accompagna i frequenti episodi di razzismo e antisemitismo di questi ultimi anni, alimentati e sfruttati a fine di consenso elettorale da esponenti politici non di secondo piano.
Una specifica e intensa trattazione è dedicata alla vicenda complessa del compromesso storico e del tentato incontro tra la DC di Aldo Moro e il Pci di Enrico Berlinguer e agli effetti della scomparsa di Moro, assassinato dalle Brigate Rosse; sino al dissolvimento del PCI dopo la caduta del Muro di Berlino, seguito dalla chiusura del sistema nell’asfittico pentapartito e poi dalla cd. “seconda Repubblica”.
E’ in quella fase – riflettendo sull’esito fallimentare di quella strategia, la quale «non lasciò nessuna eredità politica»[1] – che Pasquino colloca il progressivo esaurimento del grande discorso pubblico e la scomparsa delle culture politiche dell’Italia repubblicana. La generale assenza di risposta, anzi la mancata presa in carico della stessa domanda rivolta da Bobbio alla democrazia occidentale su come risolvere i problemi che avevano motivato il comunismo sovietico che si andava dissolvendo[2], è assunta come emblematica dell’esaurimento di ogni capacità di elaborare visioni di società e di sistema politico.
La riflessione di Pasquino non si limita alla descrizione storica. Ogni capitolo ha una conclusione che individua gli insegnamenti da trarre dagli avvenimenti. La parte su «Compromesso storico, alternativa, alternanza» si chiude con una paragrafo intitolato proprio «lezioni di politica»; quella sulla «Scomparsa delle culture politiche» si conclude con il paragrafo «La scienza politica come cultura politica», che indica un generale orientamento di metodo e di sostanza; il capitolo su «Antipolitica, populismo e antiparlamentarismo» conduce all’avvertenza che il populismo, «anche per l’inadeguatezza degli oppositori e per l’(in)cultura politica di larga parte della cittadinanza e degli operatori dei media, è probabile che mantenga ancora per non pochi anni la sua carica potenzialmente dirompente»[3].
Le analisi e le considerazioni che costellano tutte le ricostruzioni (in particolare quelle degli ultimi capitoli che affrontano i temi più urticanti dei «nuovi sfidanti della democrazia») sono preziose guide per individuare una direzione di marcia in questa epoca di populismi e di sovranismi che si propongono come alternativa all’europeismo.
2. Più che dare conto delle ragioni di condivisione delle gran parte delle analisi e delle valutazioni espresse nel libro, appare opportuno esprimere una convinta adesione alle annotazioni critiche sulla frequente mitizzazione della società civile in contrapposizione alla società politica. Viene evidenziata l’inconsistenza della retorica della società civile, che caratterizzò particolarmente la stagione della «immaginaria rivoluzione liberale berlusconiana»[4]. Quella «tematica prettamente populista» fu brandita da Berlusconi, che idealizzò «una società quasi immacolata contro la politica inadeguata e corrotta»[5].
La fallacia di quella retorica è ancora drammaticamente attuale ed emerge purtroppo anche dall’abbassamento della qualità e competenza di troppi parlamentari, che appaiono proprio la diretta espressione di settori di società lontani da qualsiasi sensibilità per l’interesse generale e il bene comune. Basti pensare all’ancora diffuso familismo (morale e amorale), al clientelismo che lega potenti e favoriti; all’assuefazione, senza grandi reazioni, di fronte a migliaia di morti sul lavoro; alla sostanziale indifferenza verso le discriminazioni più atroci che patiscono i migranti; all’imponente evasione fiscale e alla sua diffusa giustificazione; all’ostilità con cui viene contrastata la proposta di dare una risorsa di 15.000 euro ai giovani diciottenni finanziata da una modestissima tassazione di successione dei patrimoni più elevati, che attualmente perpetuano disuguaglianze intergenerazionali di ricchezza e di posizione.
Non ha senso contrapporre la società civile (buona) alla classe politica (cattiva). L’una tende ad essere lo specchio dell’altra, giacché nella nostra società convivono componenti “civili” con altri molto meno civili o francamente incivili. Ciò che pone un enorme problema di interventi istituzionali, normativi e di controllo, ma soprattutto e innanzitutto di prevenzione, di informazione e formazione, di istruzione, di cultura.
In proposito, fondatissima è l’analisi critica svolta sul ruolo della stampa e dei media (su cui torneremo) anche nell’enfatizzazione dei fenomeni dell’antipolitica, dell’antiparlamentarismo (vizi antichi del Paese, non raramente esaltati e alimentati da settori di potere) e del populismo, fenomeni che «si intersecano, si incontrano, si intrecciano nel profilo ideologico dell’Italia repubblicana più che nella storia di qualsiasi democrazia tranne, forse, quella degli USA nei suoi momenti peggiori»[6].
3. Ovviamente non mancano posizioni meno condivisibili su questioni rilevanti, anche ai fini di ciò che bisognerebbe fare per dare nuova prospettiva al sistema politico.
Sul ’68, ad esempio, Pasquino ha parole molto severe nel rimarcare che quel periodo «spazzò via, anche per la stupefacente sottovalutazione politica e culturale del tema a opera dei leader di quel movimento, qualsiasi riflessione istituzionale e costituzionale per tutto un lungo decennio»[7].
A me pare una valutazione liquidatoria ed eccessivamente critica. Se è vero che di per sé «l’antiautoritarismo…non è sufficiente a dare vita e corpo a una cultura politica»[8], non possono sottovalutarsi i rilevanti effetti prodotti o indotti da quella ventata che (certo anche con eccessi e dissipazioni) mise in discussione la struttura e la concezione gerarchica imperante nelle istituzioni e nella società, ancora troppo lontane dallo spirito e dalla lettera della Costituzione repubblicana.
La forte spinta antiautoritaria del movimento del ’68 (che si congiunse in parte a quello sindacale del ’69) fu produttiva di un pensiero critico di lungo periodo (si pensi all’università, alla magistratura, al femminismo), il quale cominciò a concretizzarsi nel decennio successivo, che non fu segnato soltanto da terrorismo e da anni di piombo, ma costituì, dopo l’Assemblea costituente, la più intensa stagione riformatrice della nostra storia[9].
Qualche puntualizzazione va fatta anche sulla ritenuta scomparsa delle culture politiche dell’Italia repubblicana, su cui Pasquino ritorna reiteratamente (senza nessun compiacimento, ma con evidente rammarico).
Sono ovviamente scomparsi coloro che avevano costruito la Repubblica e interpretato il suo spirito innovatore dando vita alle riforme giuridico-istituzionali e alle politiche economiche e sociali degli anni ’50-‘70; né gli attori delle diverse formazioni politiche, che dagli anni ‘80 si sono succeduti al governo del Paese, sono stati capaci di esprimere, al di là della contingenza del momento, una qualche progettualità o capacità di delineare una visione minimamente comparabile con quella dei costituenti e dei leaders dei due grandi partiti di massa. Fatte salve poche isolate eccezioni (si pensi al progetto Spinelli per una vera unione europea), sono mancati i progetti e i programmi politici idonei a mobilitare cittadini ed elettori, così da alimentare e incrementare la partecipazione popolare alla determinazione della politica nazionale ed europea, secondo le prospettive delineate da chi nell’Assemblea costituente aveva proposto (Lelio Basso) e approvato (la stragrande maggioranza) il testo dell’art. 49 Cost..
Non sarei però così pessimista sull’attuale persistenza in vita di quelle culture, soprattutto, di quelle espresse nella Carta costituzionale. Se è vero che «c’è una ideologia a fondamento della costituzione repubblicana…fatta della combinazione virtuosa di pluralismo e partecipazione politica, di regole, comportamenti ed etica»[10], a me pare che essa, con la ricchezza dell’accezione assegnatale, sia tuttora valida ed efficace, per quanto appannata nella coscienza di taluni degli attuali protagonisti del sistema politico.
Abbiamo una Costituzione viva e vitale (con i suoi ideali, valori e principi, il suo progetto di futuro e la sua visione pluralistica di ordinamento e di società), che non a caso ha ispirato altre costituzioni democratiche. Essa è stata ripetutamente e duramente attaccata, in particolare con le proposte di revisione prima del centro–destra di Berlusconi, poi del Pd di Renzi.
La Costituzione ha retto a quelle prove e a quelle sfide, come prova l’esito dei referendum del 2006 e del 2016, con cui la grande maggioranza dei cittadini seppellì le velleità autoritarie di chi aveva tentato quelle revisioni stravolgenti. Ne è derivata una nuova legittimazione alla Carta del 1947, che – approvata nello stesso clima culturale che dette vita nel 1945 allo Statuto delle Nazioni Unite e nel 1949 alla Legge fondamentale della Repubblica federale tedesca – ha reso concreti i fondamenti del costituzionalismo indicati dall’art. 16 della Costituzione francese del 1789: separazione dei poteri e garanzia dei diritti fondamentali, con aggiunta di una pluralistica articolazione delle istituzioni repubblicane. Queste si sono rivelate ben più solide ed elastiche di quanti molti potevano ritenere, anche di fronte alle attuali sfide sovraniste e populiste e alle torsioni emerse in tante vicende. Persino nell’attuale legislatura, le istituzioni, a cominciare dalla Presidenza della Repubblica – al di là di errori e di qualche forzatura procedurale – si sono dimostrate capaci di tenuta anche di fronte all’imprevisto e all’imprevedibile. Non era infatti in alcun modo scontato che il quadro istituzionale potesse reggere alle spinte confuse e contraddittorie prodotte da diverse e improbabili maggioranze parlamentari.
4. Occorre dunque rinnovare, accrescere e moltiplicare l’impegno per far vivere la Costituzione non soltanto come regola e struttura istituzionale, ma anche come quadro di valori, idoneo a rinnovare il Paese e i suoi progetti di futuro, traendo alimento ideale e politico dalla spinta dei movimenti che si fanno carico della salute del pianeta, del rispetto della natura, della tutela della dignità e dei diritti delle persone, in consonanza con le sensibilità che le giovani generazioni vanno esprimendo in tanti paesi dell’Europa e del mondo.
Una ragione di fiducia viene dalla recentissima legge costituzionale, approvata qualche settimana fa dal Parlamento. Essa ha modificato sia l’art. 9 Cost., inserendo tra i principi fondamentali enunciati nella nostra Carta, accanto alla tutela del paesaggio, quella dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni; sia l’art. 41, con la previsione che l’iniziativa economica privata non può svolgersi in danno della salute e dell’ambiente, oltre che della sicurezza, della libertà e della dignità umana
Per cogliere la portata e il valore dell’intervento costituzionale, basta considerare i ripetuti tentativi di neutralizzare l’intervento della giurisdizione volta a valorizzare salute e ambiente rispetto alla libertà di iniziatica economica (e di inquinamento) della siderurgia. Senza dimenticare che, non più di venti anni fa, Berlusconi, presidente del consiglio, criticava il troppo ristretto spazio di manovra lasciato alle imprese, lamentando che l’art. 41 fa riferimento «alla cultura e alla costituzione sovietica da parte dei padri che hanno scritto la Costituzione»[11].
Il successo delle modifiche proposte ha dimostrato che la Costituzione del 1947 è modificabile, anche con larghissima condivisione e con le modalità previste dell’art. 138, sempreché si tratti di modifiche puntuali e specifiche, che non ne stravolgano l’impianto, ma ne sviluppino disegno, finalità e progetto, secondo una coerente logica di continuità costituzionale.
La nuova legge costituzionale va assunta e valorizzata come segno di capacità di ricezione del Parlamento di quanto da tempo andavano proponendo non soltanto il movimento dei giovani e degli ambientalisti, ma la popolazione di tante città (con particolare forza e disperazione quella di Taranto) per contrastare inquinamenti che compromettono territori e salute e ne uccidono fisicamente gli abitanti.
5. A me pare dunque che la crisi della nostra democrazia (come emerge anche dalla settimana di elezioni presidenziali) non sia crisi istituzionale, ma sia soprattutto crisi politica, cioè crisi di partecipazione strettamente connessa alla crisi dei partiti politici.
Il discorso di Mattarella del 3 febbraio scorso ha inteso rilanciare lo spirito della «Repubblica capace di riannodare il patto costituzionale tra gli italiani e le loro istituzioni libere e democratiche» ed esprime un forte richiamo all’etica pubblica e alla dignità delle persone come finalità di ogni azione pubblica. Tali affermazioni vogliono e devono costituire sollecitazioni per tutti, per i partiti, per i sindacati, per le associazioni, per le fondazioni culturali, per i cittadini.
Senza formazioni intermedie, senza associazionismo democratico, senza luoghi di formazione della cittadinanza consapevole e attiva, senza una opinione pubblica capace di oltrepassare il contingente quotidiano, non ci può essere democrazia e tanto meno democrazia costituzionale (che rifiuta ogni assolutismo, anche quello della maggioranza). In particolare, senza partiti politici – capaci di costituire il veicolo di espressioni sociali e istituzioni, il filtro delle varie aspirazioni che percorrono la società – il meccanismo democratico stenta a funzionare e la democrazia difetta di ossigeno, determinando una pericolosa miscela potenzialmente populista, giacché rende più agevole esaltare il rapporto diretto tra un popolo indistinto e un leader/capo.
L’impegno prioritario, perciò, deve essere quello di affrontare la crisi dei partiti e della rappresentanza politica (sia dal lato dei rappresentanti sia da quello dei rappresentati). Che è innanzitutto crisi di identità, in particolare per la sinistra che, dalla terza via in poi, sembra avere smarrito la stessa voglia di interpretare i bisogni dei più svantaggiati e la capacità di visione e di progetto così da richiamare a sé cittadini partecipi e di rappresentare effettivamente un elettorato che vive (e soprattutto si sente relegato) in periferie sociali, culturali e territoriali da una egemonia individualista e neoliberista, da decenni dominante a livello nazionale e internazionale.
Non compete a politologi o a giuristi indicare la strada affinché i partiti, nella nostra democrazia costituzionale, ritrovino la loro ragion d’essere in un forte radicamento sociale, ritornando ad essere, sia pure in un contesto molto diverso da quello degli anni ‘50 e ’60, espressioni di esigenze dell’attuale società pluralista e conflittuale. Di certo, potrebbe e dovrebbe ben ritrovare la propria identità un partito di sinistra che prendesse a fondamento del proprio programma e della propria azione il principio di uguaglianza sostanziale, affermato dell’art. 3 Cost., che costituisce il contributo più rilevante e originale della sinistra italiana (e particolarmente di Lelio Basso) alla nostra Carta costituzionale e al costituzionalismo mondiale e che è destinato a rimanere il fondamentale discrimine tra sinistra e destra, al quale si è affiancata, senza sostituirlo, la polarizzazione sovranismo / europeismo.
Dinanzi all’esplosione delle insostenibili disuguaglianze prodotte dal neoliberismo, non c’è programma politico più attuale e adeguato alla complessità dei gravi problemi che ci pongono le varie crisi (pandemiche, economiche e sociali) di quello fondato sulla lotta alle disuguaglianze. Prendere sul serio quella promessa e quell’impegno (è «compito della Repubblica» di rimuovere gli ostacoli che impediscono lo sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti alla vita pubblica), con ciò che implica in termini di sanità, di istruzione, di diritti sociali, di welfare, etc., sarebbe il miglior antidoto contro le illusioni di fantomatiche terze vie. Il rilancio di un programma di realizzazione concreta dei diritti sociali costituirebbe anche la più efficace dimostrazione che la sinistra vuole riassumere nuovamente il compito storico di lotta per l’emancipazione sociale, ritrovando la capacità politica di lottare per tutti i diritti fondamentali (civili e sociali), la cui tutela non può essere affidata soltanto all’attività della giurisdizione.
6. Non possiamo però – a fronte di partiti autoreferenziali e sovente personali, privi di luoghi di confronto nazionali e territoriali, tanto da aver soppresso la pratica dei congressi (con l’eccezione del Partito radicale) – sottrarci alla domanda: come restituire significato al diritto dei cittadini, scritto nell’art. 49 della Costituzione, «di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale»?
Si può abbozzare un inizio di risposta operando con urgenza per una legge elettorale proporzionale, che ridia dignità alla rappresentanza politica e restituisca agli elettori il potere di eleggere i propri rappresentanti, da troppo tempo designati, dalle segreterie dei partiti. Solo così potrà rinascere la speranza e la possibilità di recuperare alla partecipazione elettorale l’enorme quantità di cittadini lontana dalle urne. Fermare e invertire la tendenza all’astensionismo è divenuto assolutamente prioritario per ridare senso alla cittadinanza e capacità di rappresentanza al Parlamento.
Occorre contemporaneamente ridiscutere il tema del costo e della trasparenza dell’attività politica e affrontare, finalmente, il problema della democrazia interna dei partiti.
Non hanno serio fondamento le polemiche di queste settimane sull’interferenza della magistratura nella vita dei partiti. A prescindere dalla considerazione che la giurisdizione è investita da domande di accertamento di legalità da parte di cittadini che denunciano situazioni illegali, occorre rammentare che attualmente i partiti sono associazioni di fatto soggette alla legge comune (civile e penale) amministrata dalla giurisdizione, e non già per scelta arbitraria dei magistrati, ma perché non è stata mai data attuazione all’art. 49 della Costituzione.
Una disciplina legislativa del «metodo democratico», essenziale anche all’interno dei partiti, e una ridefinizione del finanziamento pubblico della vita politica darebbero più garanzie e poteri ai cittadini, eliminerebbero in radice molte questioni per le quali oggi si ricorre ai magistrati, costituirebbero un salutare rimedio per togliere opacità alla vita dei partiti e per rafforzare il confronto collettivo e trasparente.
E’ su questo dunque che bisogna concentrarsi anche dal punto di vista tecnico, mettendo al centro del dibattito pubblico e dell’azione politica una proposta di legge attuativa dell’art. 49 Cost.[12], ovviamente senza l’illusione che si tratti di rimedio di per sé risolutivo di ogni problema, ma con la convinzione che si compirebbe un efficace passo in avanti.
7. Metodo democratico anche nella vita interna dei partiti implica anche migliore capacità selettiva della classe dirigente politica. Giustamente Pasquino sottolinea con forza che «in assenza di una cultura della politica adeguata non è in nessun modo possibile pensare alla formazione di nessuna classe dirigente»[13], tanto più che la cattiva politica è quasi sempre figlia della cattiva cultura della politica.
Va perciò molto apprezzato questo libro che, prima ancora della politica, mette al centro dell’analisi la cultura della politica, dedicando uno stimolante paragrafo alla scienza politica come cultura, in cui è espresso un condensato degli insegnamenti di Bobbio e di Sartori e delle riflessioni dello stesso Pasquino sui compiti della scienza politica, sulla necessità della formazione della classe dirigente (e di quella politica in particolare), sull’educazione dell’opinione pubblica, sull’esigenza di sprovincializzare il discorso pubblico per uscire dalla permanente illusione di una specificità italiana, comparando le situazioni e le soluzioni di altri Paesi.
Aggiungerei che una cultura politica adeguata (che possa cioè concorrere efficacemente a formare una classe dirigente all’altezza dei problemi che abbiamo dinanzi) deve essere nutrita non soltanto di nozioni di base di scienza della politica, ma anche dei fondamenti del costituzionalismo.
L’assenza di familiarità con i fondamenti del costituzionalismo, sia in tanti esponenti politici sia in opinion makers che riempiono gli editoriali dei giornali, sono fattori di diffusione di superficialità, di approssimazioni, di semplificazioni che producono disinformazione, confusione e pericoli per la democrazia.
Le pulsioni antiparlamentari e le simpatie per il presidenzialismo sono cresciute nella settimana delle elezioni presidenziali, anche a seguito delle condotte di taluni leaders di partito e del qualunquismo di molti commentatori. Non è facile dire se c’è più incompetenza o irresponsabile demagogia in chi ha lamentato le lentezze dell’elezione del Presidente della Repubblica da parte del Parlamento affermando che il popolo lo eleggerebbe in un solo giorno, dimenticando o sottacendo che il processo elettorale che conduce all’elezione presidenziale dura un anno negli USA e varie settimane di campagna elettorale in Francia.
Si pensi inoltre all’uso mirato che è stato fatto dei sondaggi, realizzati subito dopo la confusa settimana dell’elezione presidenziale, per “certificare” l’addensarsi di un senso comune antiparlamentare e favorevole al presidenzialismo.
In quell’uso mirato è stato coinvolto anche il messaggio presidenziale di Mattarella successivo alla rielezione. Quel discorso ha costituito una sollecitazione a tutti i poteri della Repubblica a orientare la propria azione ai valori della Costituzione e una forte spinta per il rilancio della centralità del Parlamento come “luogo della partecipazione”, che può e deve favorire una più generale stagione di partecipazione civica.
Stampa e televisione hanno invece teso a capovolgerlo e a presentarlo – neutralizzandone la portata intrinsecamente costituzionale e anche critica verso talune prassi del governo – come “agenda Mattarella”, quasi momento inaugurale di un presidenzialismo di fatto.
La diffusa mancanza della cultura politica necessaria in una democrazia costituzionale agevola queste spregiudicate operazioni politiche, che mirano a svuotare le istituzioni repubblicane in direzione di una verticalizzazione gerarchica.
Una ventina d’anni fa, Peter Haberle intitolava una delle sue opere più note Per una dottrina della costituzione come scienza della cultura[14], dove sottolineava che le costituzioni non sono soltanto regole, ma anche cristallizzazioni di cultura, frutti e semi di un processo pubblico sempre aperto e mediato da istituzioni culturali che alimentano tanto la politica quanto il diritto.
Deve perciò diventare impegno professionale di politologi e di giuristi allargare e diffondere la cultura della politica e la consapevolezza che i principi costituzionali non sono semplici raccomandazioni, ma un insieme organico che costituiscono un sistema vincolante, non solo per orientare programmi e politiche, ma anche per porre ad ogni potere, pubblico e privato, e particolarmente a chi deve decidere (fosse anche la stragrande maggioranza o l’unanimità), l’obbligo di rispettare limiti e vincoli, a tutela delle libertà e per la realizzazione di una vita degna e un’esistenza libera e dignitosa di ciascuna persona, cittadina o straniera. Necessità tanto più impellente quanto più i luoghi della decisione si spostano verso centri di potere lontani dalle dinamiche democratiche.
[1] G. Pasquino, Libertà…, p. 112.
[2] La domanda di Bobbio è così riformulata da Pasquino: «Con quali mezzi e con quali ideali (la democrazia) si dispone ad affrontare gli stessi problemi da cui era nata la sfida comunista?», ivi, p. 110.
[9] Tra le numerose riforme di fondamentale rilievo: Statuto dei lavoratori 20/5/70 n.300; Istituzione delle Regioni 7/6/70; Divorzio 1/12/70 n. 898; Processo del lavoro 11.8.73 n. 533; Decreti delegati sulla democrazia nella scuola DPR 31/5/74 n. 416; Istituzione dei Consultori familiari L. 29/7/75, n. 405; Riforma diritto di famiglia 19/5/75 n. 151; Riforma dell’ordinamento penitenziario L. 354/75; L. Basaglia sui e trattamenti sanitari volontari e obbligatori L. 189/1978; Riforma sanitaria e Istituzione del SSN L. 833/1978; Equo canone L. 392/78.
[10] Pasquino, Libertà…, p. 113.
[11] In un convegno della Confindustria, svoltosi a Torino, V. Repubblica.it 12 aprile 2003.
[12] In proposito si rinvia al numero n. 3/2018 dei Quaderni del Circolo Rosselli Per l’attuazione dell’art. 49 della Costituzione. dove è pubblicata anche una proposta di articolato elaborata dalla Fondazione Basso.
[13] Pasquino, Libertà…, p. 137.
[14] Peter Haberle, Per una dottrina della costituzione come scienza della cultura, Carocci 2001.