“Conferenza di pace per un nuovo accordo di convivenza internazionale” di Franco Ippolito
Conferenza di pace per un nuovo accordo di convivenza internazionale
Franco Ippolito
1. Ringrazio l’Associazione Laudato Si per la realizzazione dell’interessante e proficuo incontro sulla guerra in Ucraina (4 aprile scorso), ricco di tanti validi contributi per meglio capire quanto sta accadendo e quanto è necessario fare per porre fine alla guerra che, come sempre, sconvolge per atrocità e disprezzo della vita umana.
Ho molto apprezzato il clima complessivo del confronto, favorito dall’invito iniziale di Guido Viale ad assumere un atteggiamento di reciproca disponibilità alla contaminazione delle opinioni. Mettersi in ascolto delle ragioni dell’altro è la premessa indispensabile per sottrarsi a due nefasti effetti che il clima di guerra sta determinando: manicheismo e “sindrome del tradimento” (addebitato soprattutto all’abituale compagno di idee che dissente dalle nostre opinioni). A tale confronto voglio concorrere con qualche considerazione che nasce dagli stimoli del dibattito.
2. Non mi pare produttivo continuare a discutere (e a litigare) sull’aiuto armato alla resistenza ucraina. Il tema è cronologicamente superato nei fatti da quanto è stato deciso e non giova continuare a polemizzare. Vale la pena, piuttosto, confrontarsi su ciò che è urgente e prioritario fare per fermare la guerra e per tentare di superare il clima avvelenato diffuso da un sistema politico–mediatico allineato (deliberatamente o servilmente) al complesso militare–industriale.
Le analisi storiche sono utili se strettamente funzionali a individuare una via di uscita, evitando errori già commessi in passato. Senza avventurarsi in considerazioni antropologiche generali, dobbiamo costatare che, nell’epoca storica che – sommariamente e a grandi linee – fa parte della nostra cultura, la competizione e il conflitto hanno costituito elementi normali e abituali per conseguire e mantenere il dominio di pochi (sia a livello collettivo sia a livello e interpersonale); competizione e conflitto sovente trasmodati in violenza e guerra, come di solito avviene quando le tensioni non sono sottoposte a regole (autonome o eteronome).
Per secoli la guerra è stato lo strumento normale degli Stati sovrani per affermarsi e per risolvere controversie con gli altri Stati. Tale strumento non solo era normale, ma anche pienamente legittimo, anzi riconosciuto come la massima espressione della sovranità assoluta degli Stati (da Westfalia in poi). Legittimo fino al 1945, quando – sull’orrore di decine di milioni di morti causati da due guerre mondiali nate in Europa – fu pronunciato un solenne MAI PIÙ, con l’approvazione dello Statuto e la costituzione delle Nazioni Unite. Da quel momento la guerra è divenuta illecita ed è consentita soltanto come mezzo di difesa dalle aggressioni (art. 51 dello Statuto Onu e art. 11 della Costituzione italiana, che la guerra ha ripudiato “come mezzo di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”).
3. Tutto il sistema delle N.U. (pari dignità delle persone e degli Stati, liberazione dai domini coloniali e autodeterminazione dei popoli, diritti umani e diritti dei popoli, costituzione di tribunali internazionali, etc.) è volto a prevenire la guerra, ciò che in concreto significa impegno a costruire la pace, sulla consapevolezza, espressa nel preambolo dello Statuto, che la violazione dei diritti e della giustizia mettono in pericolo la pace e che, al tempo stesso, la pace è il presupposto dell’effettività dei diritti e della giustizia.
Dal 1945 non sono più riconosciute sovranità assolute, ma sistemi politici interdipendenti. L’invasione di uno Stato e l’aggressione di un popolo per risolvere controversie internazionali (anche quando motivate da ragioni fondate) costituiscono comportamenti e atti illeciti, produttivi di crimini che devono essere puniti.
Questo è il dover essere, ciò che deve essere, che ha fatto crescere nel mondo la cultura della pace, come hanno testimoniato a più riprese centinaia di milioni di persone, con le loro manifestazioni pacifiche contro le guerre. Non è cresciuta però da parte degli Stati, e soprattutto delle grandi potenze, comprese quelle che alzano la bandiera dei “valori democratici universali”, né la coerenza tra parole e comportamenti né la pratica e la costruzione della pace, ossia la realizzazione di condotte e azioni volte a prevenire le guerre. Anzi, quel “mai più” è stato ripetutamente violato in questi decenni (Corea, Vietnam, guerre del 2000, Iraq, Afganistan, Siria …).
Il sistema onusiano ha costituito una tappa fondamentale di progresso: ha rifiutato la logica del Trattato di Versailles (1919), che aveva preteso di imporre la pace con spirito di vendetta verso gli sconfitti; ha cambiato il paradigma del diritto internazionale e del criterio di liceità/illiceità della condotta degli Stati; ha legittimato la liberazione e l’autodeterminazione dei popoli; ha affermato il primato dei diritti umani come fondamento dell’ordinamento di convivenza. Tutto ciò ha avuto progressive realizzazioni (non senza contraddizioni) soprattutto per effetto delle risoluzioni dell’Assemblea generale e dell’azione delle varie Agenzie (Undp, Unesco, Fao, etc.).
Quel sistema, tuttavia, ha mostrato la sua debolezza per vizi d’origine, che potevano ritenersi necessitati e inevitabili nell’immediato dopoguerra, ma che ormai da decenni costituiscono il vero impedimento all’azione di pace delle N.U., azione che non può dispiegarsi “per costituzione” nei confronti delle grandi potenze che dominano il Consiglio di Sicurezza con il diritto di veto.
È la logica “imperiale” delle grandi potenze e della geopolitica, con i connessi strumenti di dominio (sfere di influenze, alleanze militari, corsa agli armamenti, minaccia nucleare, occupazione e privatizzazione dello spazio atmosferico, uso della tecnologia a scopo di dominio, utilizzazione predatoria delle risorse naturali…) che va superata e battuta, giacché costituisce un potenziale attentato alla pace e un permanente fattore di conflitti e di guerre.
4. Le considerazioni che precedono possono guidarci nella valutazione della tragedia in atto e per individuare possibili vie d’uscita, diverse dall’annichilimento e dalla sconfitta dei contendenti.
Le ragioni e i torti non sono mai da una sola parte. Hanno concorso al precipitare del conflitto in scontro bellico anche comportamenti degli USA e della Nato che hanno operato senza considerare il dovere e la necessità di prevenire rischi di guerre e di costruire la pace. La miopia dell’Occidente – che non colse l’occasione della caduta del Muro per coinvolgere tutti i Paesi (e in particolare le Repubbliche che avevano costituito l’Urss, a cominciare dalla Federazione Russa) in un nuovo accordo di convivenza internazionale, superando le vecchie logiche di alleanze e di contrapposizioni armate (progressivamente allargate e potenziate) – ha costituito un fattore che concorre a spiegare la condotta “imperiale” del regime autocratico della Federazione russa.
Ma spiegare non implica in nessun modo giustificare. Rimane una netta differenza tra chi ha mancato al dovere di farsi carico delle conseguenze (non importa se volute o meno) delle proprie azioni, al fine di prevenire ogni rischio di guerra (così si costruisce la pace!) e chi ha violato il divieto posto a fondamento di tutto il sistema del diritto internazionale nato nel 1945: il divieto della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
In un caso si è di fronte a politiche e a strategie sbagliate, quando non avventuristiche, che vanno contrastate; nell’altro a condotte illecite di aggressione e di guerra, che vanno condannate.
5. Come uscire da questa crisi? Certo non basta la minaccia del processo penale per crimini di guerra. Il diritto penale sanziona i crimini già commessi. La punizione dei colpevoli, dopo il giusto processo, è la riaffermazione del valore delle regole di convivenza, a livello interno e internazionale. Ieri è divenuta definitiva la condanna a 12 anni di reclusione dei carabinieri responsabili della morte di Stefano Cucchi. Quella condanna restituisce la verità alla famiglia Cucchi e a tutto il Paese e costituisce un monito per ricordare che non c’è impunità per il pubblico ufficiale che usa violenza alle persone. Lo stesso vale per i crimini di guerra e contro l’umanità.
In proposito va rilevato il paradosso del Presidente Biden che, venendo meno al suo dovere di negoziare per far cessare subito i massacri, invoca il processo e la punizione per crimini di guerra a nome degli Stati Uniti, i quali – come Russia, Cina, India e Israele – non hanno ratificato il trattato istitutivo della Corte penale internazionale, e anzi hanno stipulato (di fatto imposto a Paesi economicamente ricattabili) accordi bilaterali con Stati che avevano già ratificato, al fine di impedire ogni loro collaborazione con la CPI.
La pace non si costruisce a parole, ma operando coerentemente per rafforzare le istituzioni internazionali idonee a infrenare le pulsioni belliche e capaci di realizzare accordi e trattati per mettere al bando gli armamenti, cominciando dall’adesione e dalla ratifica del Trattato per la proibizione delle armi nucleari, disertato dalle potenze che detengono ordigni nucleari e dai loro alleati (Italia compresa).
E’ urgente realizzare la cessazione immediata delle atrocità in atto e dello scontro armato. Certo la pace va costruita per tempo e la guerra va prevenuta. Ma quando essa è in atto va fermata con la politica, non con il diritto penale, tanto meno con altri atti di aggravamento dello scontro bellico.
Al di là degli appelli, occorre creare le condizioni perché i belligeranti (Russia, Ucraina, Usa) decidano la cessazione della guerra in atto. Le stesse sanzioni economiche (rivelatisi del tutto inefficaci in altre occasioni) hanno un senso soltanto se finalizzate alla cessazione della guerra e per indurre alla trattativa, non per conseguire la caduta del regime di Putin o la vittoria della democrazia sull’autocrazia. Dall’illusione della esportazione armata della democrazia dovremmo essere guariti dopo i disastri fatti in Medio Oriente e in Afganistan!
È indispensabile un forte appello alla responsabilità di tutti per realizzare una Conferenza di pace che si faccia carico delle questioni che hanno condotto all’attuale situazione. Occorre chiamare in causa le organizzazioni internazionali esistenti, a cominciare dall’ONU (da rilanciare e democratizzare sul principio della pari dignità dei suoi componenti). Un suo attivo e deciso ruolo nella soluzione di questa crisi può restituirle una credibilità via via affievolita.
Nell’inerzia diplomatica delle grandi potenze (Stati Uniti e Cina), deve essere l’Unione europea, che nel suo Trattato dichiara di voler rafforzare “la sua indipendenza al fine di promuovere la pace, la sicurezza e il progresso in Europa e nel mondo”, a lanciare all’ONU la formale proposta di una Conferenza di pace che ricerchi e stabilisca un nuovo accordo di convivenza internazionale, che sia lontano da ogni spirito di vendetta verso chicchessia. In funesti effetti di Versailles sulla crescita dei nazionalismi nella prima metà del ‘900 dovrebbero averci insegnato che dalle crisi si esce soltanto con un accordo che guardi al futuro, coinvolgendo positivamente tutti gli attori della comunità internazionale.
Solo così, nel rispetto della pari dignità di tutti i Paesi e di tutti i popoli e con un metodo di effettivo multilateralismo, può determinarsi un concorso di tutti al mantenimento della pace, evitando la contrapposizione Occidente/Cina-Urss, funesta per il futuro del mondo.
Per dare credibilità e legittimazione all’Unione europea occorre però contrastare con determinazione la corsa al riarmo che si è innescata con la decisione di raggiungere per spese militari il 2% del bilancio, tanto più considerando, per un verso, che le spese militari dei 27 Paesi europei ammontano già a ben oltre il triplo di quelle della Federazione russa e, per altro verso, che l’aumento di 100 miliardi per spese militari – repentinamente deciso – contraddice 60 anni di quella nuova identità pacifica dalla Germana federale, che fu rilevante per l’assenso degli altri Paesi alla riunificazione tedesca.
Più che polemizzare sulla data di raggiungimento del 2% (2024, 2028, 2030), i partiti italiani e il sistema mediatico di supporto dovrebbero interrogarsi sulle allarmanti prospettive che si vanno delineando per l’UE che uscirà da questa crisi, se ogni paese continua a perseguire strade nazionali senza affrontare prioritariamente il problema della unificazione, in ambito comunitario e non intergovernativo, della politica estera e di sicurezza, comprensiva quanto meno di un coordinamento di difesa comune, su base di indipendenza europea.
L’aumento delle spese militari, operativamente irrilevante per l’attuale conflitto, non soltanto rischia di ostacolare l’avvio di una trattativa seria per arrivare al più presto alla fine della guerra, ma prefigura nei fatti un’Unione europea che rinnega se stessa e i valori dei suoi padri fondatori e ispiratori (a cominciare da Altiero Spinelli). La corsa verso il riarmo dei diversi Stati alimenta i vari nazionalismi (con gioia delle destre italiane e francesi) e aiuta a realizzare gli obiettivi del complesso militare-industriale di ogni Paese. Complesso del quale, già nel 1961, fu denunciato il permanente pericolo per la democrazia, e non da parte di un sognatore pacifista, ma di una personalità che ben si intendeva di armi, di guerre e di politica, Dwight Eisenhower nel discorso di addio alla Presidenza degli USA.
Roma 5 aprile 2022