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Ciao Roberto

Se n’è andato un vero giornalista, un uomo di grande coraggio e onestà. Oggi è venuto a mancare Roberto Morrione, ex direttore di Rainews 24 e presidente di Libera Informazione. Morrione è stato docente della Scuola di giornalismo della Fondazione Internazionale ”Lelio Basso” sin dalla sua creazione. Il suo modulo di inchiesta televisiva era ricco di umanità e il suo metodo d’insegnamento era tutto basato sulla semplicità e la chiarezza. Morrione ci ripeteva sempre una frase di Giuseppe Fava: «un giornalista incapace – per vigliaccheria o calcolo – della verità si porta sulla coscienza tutti i dolori umani che avrebbe potuto evitare, e le sofferenze, le sopraffazioni, le corruzioni, le violenze che non è stato capace di combattere».

Proprio in questi giorni Roberto Morrione avrebbe dovuto tenere le sue lezioni, ci aveva chiamato per spostarle di qualche giorno, era molto dispiaciuto. Purtroppo il male che lo aveva colpito ha avuto la meglio. Ma la lezione di Morrione resta nelle coscienze di tutti i suoi studenti e di chi ha avuto l’onore di poter lavorare con lui.

 

La camera ardente sarà allestita presso l’aula consiliare della Provincia di Roma (Palazzo Valentini, Via IV Novembre 119/a) lunedì 23 maggio dalle 10:00 alle 14:00. I Funerali saranno celebrati dalle 14:00.

 

Riportiamo qui una intervista rilasciata da Roberto Morrione per la rivista Fondazione:

Dare voce a tutti

Roberto Morrione è stato direttore di Rainews24 dal 1999 al 2006. Entrato alla Rai nel 1962, dal ’69 lavora prima al telegiornale unico e poi dal ’75, dopo la riforma, al Tg1 fino a diventarne vice direttore nel 1990. Nel ’92 passa al Tg3, lì promuove una politica editoriale legata a inchieste e approfondimenti. Tra il 1994 e il ’95 è vice direttore del Tg2 e poi direttore di Televideo. Nel 1996 diventa direttore di Rai International, restando in carica fino al 1999, quando contribuisce alla creazione del canale satellitare Rainews24. Durante la sua direzione Rainews24 ha prodotto inchieste come: Fallujah la strage nascosta, Uranio impoverito, Guerre stallari in Iraq.
Trent’anni fa è stata approvata la Dichiarazione universale dei diritti dei Popoli. Molte questioni trattate in quel documento sono ancora oggi di grande attualità, come si comporta l’informazione nell’affrontare temi come il diritto all’autodeterminazione, i diritti delle minoranze, o il diritto alla diversità culturale?

«È una situazione molto complessa, ma io non vedo sostanziali cambiamenti in positivo rispetto a trent’anni fa. Secondo me c’è una continuità. Certamente ci sono state delle aperture e sono anche nati nuovi soggetti, ma la grande informazione, quella fatta dai ”broadcaster” che dominano il mercato televisivo e dai grandi giornali occidentali, di fatto rimane molta lontana dalla realtà del mondo. Questo mi sembra il primo punto da cui partire».
Perché non è cambiato molto?

«Il fatto è che c’è un collateralismo con molti tipi di potere, ma in particolare con il potere economico e con quello politico. Questa è una responsabilità molto seria che ricade sull’informazione. Da molti anni, infatti, l’informazione ha assunto dei modelli spettacolari e di consumo trascurando le sue vere finalità. In questo senso il mondo dell’informazione è molto attento a non turbare quegli equilibri che le garantiscono risorse e pubblicità. Tali equilibri sono determinati dagli interessi dei grandi gruppi che dominano la globalizzazione. I giornalisti hanno la loro parte di responsabilità in tutto questo, con le loro organizzazioni e con i loro limiti culturali, anche molto profondi».

Guerre e violazioni dei diritti umani sono tornati ad essere centrali nello scenario internazionale. Non crede che la tendenza alla spettacolarizzazione abbia portato l’informazione ad affrontare tutto ciò in modo superficiale?

«Non penso che si tratti solamente di spettacolarizzazione, anche se questa è una delle regole inesorabili che dominano il mercato, in particolare quello audiovisivo. A mio avviso si tratta ancora una volta di non disturbare i grandi poteri del mondo. Molti osservatori concordano nell’affermare che la televisione sia la prosecuzione della politica con dei mezzi diversi. La Tv è uno strumento che viene utilizzato anche con grandi campagne di manipolazione e grandi bugie, le abbiamo viste di recente per il conflitto in Iraq. Bugie mediatiche che poi formano opinione pubblica, danno consenso e rafforzano il potere stesso».
Restando in tema, nel mondo ci sono molte zone di crisi che non ottengono l’attenzione della grande informazione. Perché?

«Il distacco dei media rispetto a queste situazioni è veramente massiccio e complessivamente è un distacco colpevole. Sicuramente c’è un problema culturale più generale, però ci sono anche degli spunti da cui bisognerebbe partire, ad esempio una riforma del servizio pubblico radiotelevisivo. Si dibatte su questo in tutta Europa, non solo in Italia. I servizi pubblici di informazione hanno una grande responsabilità e anche una grande opportunità, attraverso la multimedialità dovrebbero illuminare tutte le zone oscure del pianeta e non essere condizionati da poteri che con l’editoria e l’informazione non hanno niente a che fare. Inoltre sarebbe molto importante stabilire dei circuiti internazionali dell’audiovisivo in cui ci sia scambio d’esperienze e di materiali con quei soggetti, come Al Jazeera, che in questi anni si sono dimostrati capaci di rompere l’egemonia dei grandi gruppi mediatici occidentali».

Oltre alle zone dimenticate, ci sono anche aspetti degli ultimi conflitti che sono stati taciuti, come l’utilizzo da parte degli eserciti statunitense e israeliano di nuove armi in Iraq e in Libano…
«Le recenti inchieste di Rainews24 vanno in quella direzione. Stiamo passando a un nuova generazione di armi a energia, laser e forse anche armi nucleari tattiche con caratteristiche evidentemente diverse da quelle dell’olocausto nucleare. Si stanno aprendo degli scenari molto preoccupanti. La guerra in Libano ha dimostrato come ci siano già delle sperimentazioni avanzate di armi di questa generazione. Si tratta di cominciare ad occuparsene e di lanciare un allarme sul piano mondiale. Bisogna aprire un’indagine che vada dalle Nazioni Unite all’Unione europea, fino ai tribunali internazionali per cercare di controllare questo nuovo campo».

Lei prima ha detto che la multimedialità potrebbe dare maggiori possibilità ai giornalisti di coprire le aree dimenticate. Senza dubbio questo è un grosso elemento di discontinuità rispetto agli anni ’70. La multimedialità può davvero modificare il campo dell’informazione?
«E’ evidente che oggi le tecnologie consentono una visione in diretta degli eventi del mondo e quindi, teoricamente, danno maggiori possibilità di informare correttamente. Però i grandi interessi di coloro che gestiscono le televisioni nel mondo, che sono molto pochi perché c’è una concentrazione eccezionale, soprattutto da parte americana, di fatto impediscono questo tipo di approccio. Tuttavia è sempre possibile, con uno sforzo di analisi, mettendo insieme diverse fonti di informazione, fare qualcosa di più. Il pluralismo da questo punto di vista è assolutamente indispensabile. In tutto questo c’è una forte responsabilità degli operatori dei media che avrebbero, con le nuove tecnologie, la possibilità di trovare fonti, di allargare l’orizzonte, di verificare le campagne mediatiche a comando, però in genere non lo fanno».

 

Ecco, perché non lo fanno?

«Come ha detto giustamente il sociologo francese Alain Accardo, da parte dei giornalisti c’è una specie di coincidenza con i valori del mercato, con i valori dominanti. Ci troviamo in una situazione per cui sono talmente condizionati da non rendersi conto di esserlo. Quindi basta avere alla guida di una testata un qualche direttore, magari anche con un’ottima fama, ma che è molto allineato con i valori dominanti del mercato, per far sì che l’intera organizzazione vada in un senso invece che in un altro. Tuttavia le tecnologie aprono degli spazi assolutamente nuovi. A mio parere oggi è possibile allargare enormemente le fonti dando voce a elementi del mondo che fino a ieri non l’avevano e questo, comunque, può aprire delle contraddizioni e delle dialettiche assolutamente nuove e diverse. Almeno spero».
Intervista di Luca Muzi

Da Fondazione, Anno XIII, n.1, Gennaio-Marzo 2007

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