news

Roma – 10 dicembre 2018 – Il genocidio del popolo Rohingya

Il genocidio del popolo Rohingya

Diritto internazionale e giurisdizione penale internazionale

 

Roma – 10 dicembre 2018

 


 

Introduzione di Franco Ippolito, Presidente Fondazione Basso

 

Ringrazio il Presidente della Camera Roberto Fico per avere consentito lo svolgimento, in una sede della Camera dei deputati, di questo convegno, organizzato dalla Fondazione Basso e dal Tribunale Permanente dei Popoli nel giorno della ricorrenza del 70° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, che si apre con l’affermazione “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.

Al centro della giornata abbiamo posto la tragica vicenda del popolo dei Rohingya, oggetto di genocidio da parte del Myanmar, paese al centro di un conflitto tra grandi potenze mondiali per interessi strategici, economici e militari. La questione al nostro esame non riguarda singoli diritti umani, bensì la violazione sistematica di tutti i diritti fondamentali, sino a comprendere il più grave dei crimini previsti dal diritto internazionale, quello di genocidio contro il popolo dei Rohingya.  Vedremo tuttavia tra un attimo che tra diritti umani e diritti dei popoli il nesso è strettissimo.

Ci preme preliminarmente, in questa sede istituzionale, di fare un cenno alla natura del TPP, giacché accade talvolta di ascoltare affermazioni che implicano confusione e stravolgimenti concettuali tra tribunali di opinioni e sedicenti “tribunali del popolo” di funesta memoria.

Per cogliere la distanza abissale tra il Tribunale Permanente dei Popoli e i famigerati tribunali del popolo basta rammentare un solo episodio, accaduto a Bogotà nel luglio 2008, quando ancora era acuto il conflitto armato tra le Forze armate e le FARC.

A conclusione di un biennale impegno pubblico in Colombia, il TPP era riunito in una affollatissima aula dell’Università di Bogotà. Mentre il Presidente, Adolfo Perez Esquivel, premio Nobel per la pace, leggeva la sentenza finale, in diversi punti dell’aula comparvero dei personaggi incappucciati che si autodefinirono combattenti per la libertà del popolo e richiesero la parola.

Il Tribunale ovviamente negò loro la parola, affermando che il diritto e i diritti, posti alla base di ogni sentenza, di cui connotato essenziale è la pubblicità, costituiscono un’alternativa trasparente di civiltà e di impegno democratico, antitetica non soltanto alla violenza, ma anche ad ogni modalità segreta od occulta di intervento nelle relazioni umane e sociali. Uno scrosciante applauso dei presenti indusse gli incappucciati a rinunciare alle loro pretese e a ritirarsi dall’aula.

Il TPP è un tribunale d’opinione, istituito da Lelio Basso, che era stato componente negli anni ’60 del primo Tribunale Russell sui crimini commessi dagli USA nel Vietnam e, negli anni ‘70, presidente del Tribunale Russell II, che ebbe ad oggetto le atroci violazioni commesse dalle dittature militari di paesi dell’America Latina contro i propri stessi popoli.
Fu il filosofo inglese Bertrand Russell, a metà degli anni’60 del secolo scorso, a convocare il primo tribunale d’opinione, invitando personalità di grande autorevolezza internazionale e provenienti da paesi, da culture e da esperienze diverse, per giudicare le atrocità dell’aggressione americana al popolo del Vietnam, che si andava realizzando nell’inerzia di tutte le organizzazioni internazionali. “Ci consideriamo – affermarono i componenti di quel Tribunale il 15 novembre 1966 –come un tribunale che, pur sprovvisto del potere di applicare sanzioni, dovrà rispondere ad un certo numero di questioni con l’imparzialità e il rigore che ci si attende da un tribunale.
Il presidente della repubblica generale De Gaulle negò a quel Tribunale la possibilità

di tenere la sessione a Parigi, qualificando come eversiva l’iniziativa di “semplici cittadini”, in quanto “l’esercizio della giurisdizione non appartiene se non allo Stato”.  La sessione del Tribunale fu spostata a Stoccolma, dove il 2 maggio 1967, aprendo i lavori, J. P. Sartre, presidente del tribunale, rivendicò la legittimità dell’iniziativa, affermando che quel tribunale non si sostituiva ad alcun potere legittimo. Esso è nato – affermò Sartre – da una lacuna dell’ordinamento internazionale e da un appello dei movimenti e delle mobilitazioni mondiali al fine di verificare la legittimità dell’azione degli Stati Uniti. “La nostra impotenza – concluse –  è la garanzia della nostra indipendenza. Non rappresentando né governi né partiti, noi non possiamo ricevere ordini da nessuno: esamineremo i fatti secondo la nostra coscienza e in tutta libertà di spirito”.

Dopo la morte di Russell, all’inizio degli anni ’70 Basso – sollecitato da tanti esuli latinoamericani – convocò un altro tribunale, che prese il nome Russell II, con lo scopo di indagare sulle violazioni commesse da molti regimi dittatoriali latinoamericani contro i propri popoli (Brasile, Paraguay, Uruguay,  Cile, Argentina).

Da quell’esperienza Basso maturò l’idea dello stretto vincolo sussistente tra diritti umani e diritti dei popoli e si impegnò, con l’ausilio di giuristi e politici di rilievo internazionale, a elaborare una Dichiarazione universale dei diritti dei popoli (approvata nella Conferenza di Algeri il 4 luglio 1976), sintesi del nuovo diritto internazionale che andava emergendo dalle risoluzioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e dalle aspirazioni dei movimenti di liberazione di popoli oppressi, una Dichiarazione da affiancare alla Dichiarazione universale dei diritti umani, approvata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1948.
L’effettività dei diritti umani non poteva prescindere dal riconoscimento dei diritti dei popoli. Per Basso – come per tutta la migliore cultura costituzionale e politica nata dalla lotta all’orrore del nazifascismo, cultura che ha saputo coniugare diritti civili e diritti sociali, libertà e principio di uguaglianza effettiva – “l’uomo non è un’astrazione, ma un soggetto storicamente determinato, una persona inserita in una trama di relazioni economiche, sociali, culturali che formano la sua specifica identità  la cui tutela non può avvenire attraverso l’applicazione di moduli astrattizzanti che non tengano conto delle specifiche connotazioni del contesto collettivo nel quale la singola persona si è formata” (S. Senese).
Dalla stessa riflessione sull’esperienza dei Tribunali Russell, Basso maturò la necessità di costituire un Tribunale Permanente, a cui popoli, minoranze, movimenti, associazioni potessero rivolgersi per far valere i loro diritti almeno di fronte alla coscienza etica del mondo, soprattutto quando la comunità internazionale risulta paralizzata da conflitti di potenze o distratta da avvenimenti di maggiore impatto mediatico.

Questo è stato il TPP nelle 46 sessioni che dal giugno 1979 ne hanno segnato la storia: dal genocidio degli Armeni al disastro ambientale di Bhopal, dalle politiche predatorie della multinazionali in Africa alla tragedie dei migranti, dalla ripresa delle  logiche sovraniste di guerra e di potenza alla violenze del governo turco contro il popolo curdo.

Questo vuole continuare ad essere il TPP, un tribunale della coscienza civile ed etica del mondo, che lavora come la giurisdizione, effettuando con rigore la ricostruzione dei fatti e delle relative cause, e pronuncia, con imparzialità e indipendenza, giudizi fondati sul diritto come valore e strumento alternativo alla forza e alla violenza, utilizzando la sola forza della ragione e dei diritti dell’uomo e dei popoli.

Per tanti anni il TPP ha auspicato la costituzione di una vera giurisdizione internazionale, con i caratteri tipici delle istituzioni internazionali, capace di affermare il diritto e i diritti dell’uomo e dei popoli. Finalmente nel 1998 tale organismo prese vita, qui a Roma, con la Convenzione internazionale che fece nascere la Corte penale internazionale.

Dopo la nascita della CPI non hanno dunque più ragione d’essere i Tribunali di opinione? Vorremmo che così fosse e continueremo a impegnarci affinché non ci sia più bisogno di alcuna supplenza da parte della società civile. Tuttavia è agevole costatare che per limiti statutari, per mancanza di adesione o di ratifiche alla Convenzione, per condizionamenti e pressioni da parte di grandi potenze, l’efficacia dell’azione delle istituzioni giudiziarie internazionali è talora assente o carente o, comunque, tardiva.

È quanto accade per i Rohingya, popolo oppresso e violentato dallo Stato del  Myanmar, che non è parte della  Convenzione di Roma.

Quando abbiamo deciso di aprire una sessione del TPP sulla tragedia dei Rohingya e quando il TPP ha emesso il giudizio di genocidio a Kuala Lumpur in Malesia (settembre 2017), la comunità degli Stati e gli organismi di diritto internazionale non davano segni di riconoscere la gravità di ciò che stava succedendo e lo stesso sistema mass-mediatico era piuttosto disattento.

Oggi, a distanza di oltre un anno dalla sentenza del TPP, le atrocità contro il popolo Rohingya sono continuate, ma finalmente sembra che qualche reazione si stia avviando, a livello di Nazioni Unite e di Corte penale internazionale. Di questo ci diranno i nostri relatori odierni, esperti e specialisti della materia.

Ma non ci sono soltanto azioni criminali da accertare e responsabilità penali da sanzionare. Le sofferenze di questo popolo permangono e si aggravano. Centinaia di migliaia di persone, tra cui tanti anziani, bambini e donne, sono state costrette a lasciare i luoghi di origine e di residenza del Myanmar e a rifugiarsi all’estero.

Bisogna attendere i tempi lunghi dalla Corte penale internazionale, ammesso che al giudizio di pervenga? È indispensabile che la comunità internazionale intraprenda con urgenza azioni di sostanziale ripristino delle condizioni e modalità di vita del popolo violentato dal governo del Myanmar. I tempi e i modi di riconoscimento dei diritti fondamentali del popolo Rohingya e di risarcimento dei danni non devono determinare ulteriori sofferenze. Occorre perciò trovare soluzioni praticabili alla crisi prima che sia troppo tardi. La credibilità dell’Italia e dell’Europa è messa alla prova: devono intervenire con azioni coerenti ed efficaci, sul piano economico e su quello dei rapporti politici.

Come abbiamo scritto nell’invito a questo convegno, il popolo Rohingya è drammaticamente divenuto il simbolo dell’incapacità delle agenzie internazionali di applicare il “mai più” della Dichiarazione universale dei diritti umani. La tragedia di quel popolo illustra in modo chiaro ciò che sta accadendo in tante parti del mondo: la difficoltà, talora l’inefficacia del diritto internazionale a continuare ad essere (come era stato per qualche decennio dopo la costituzione delle Nazioni Unite) criterio di orientamento della politica e strumento di protezione dei popoli e delle persone da gravi violazioni dei diritti all’esistenza, alla vita, al sostentamento e alla pari dignità.

Alla rassegnazione e all’impotenza, noi vogliamo contrapporre l’impegno per stimolare una vigile e più attiva opinione pubblica internazionale ad intraprendere con determinazione la lotta per il rispetto e la tutela dei diritti fondamentali, con la consapevolezza, espressa in tanti documenti internazionali, che non può esservi pace senza giustizia e che non può esservi giustizia senza rispetto del principio di uguaglianza tra le persone e tra i popoli.

Possiamo ripetere oggi le parole che Julio Cortàzar ebbe a pronunciare il  24 giugno 1979, in occasione della seduta pubblica di costituzione del TPP: “questo Tribunale dei popoli che si costituisce oggi a Bologna ci dà nuova lena, ed una nuova ragione di perseveranza. Inventiamo dei ponti, inventiamo delle strade verso quanti, da molto lontano, ascolteranno la nostra voce e ne faranno un giorno un tale clamore che abbatterà le barriere che li separano oggi dalla giustizia, dalla sovranità e dalla dignità”.

 

 

 

Franco Ippolito

Share this...
Share on LinkedInShare on Google+Tweet about this on TwitterShare on TumblrEmail this to someonePrint this pagePin on Pinterest
""