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Ricordando Anna Basso

Di seguito il ricordo di Elena Paciotti, Sergio Poeta e Gianni Tognoni di Anna Basso

Il ricordo di Elena Paciotti

La gestione della Fondazione Basso è stata l’ultima impresa nell’intensa vita di Anna Basso.

Una vita, come abbiamo appreso a poco a poco – e non certo da lei – davvero straordinaria, dedicata principalmente alla cura degli afasici, da lei stessa perfezionata e introdotta in Italia. Un impegno che l’ha portata a diventare l’unico primario ospedaliero non laureato in medicina – si era infatti tardivamente iscritta alla facoltà di filosofia per potersi laureare in psicologia – e un’autorità mondiale nel suo campo, una geniale scienziata affascinata dal tema del linguaggio e dalla possibilità concreta di ridare voce a chi non riusciva ad esprimersi. Alla cura dell’afasia ha dedicato anche un’apposita associazione, che ha presieduto per molti anni, e, fra gli altri, un bel libro, che ha presentato qui, scritto insieme con un suo paziente, Andrea Moretti, grazie a lei sostanzialmente guarito: quella presentazione è stata emozionante e ci ha fatto capire che cosa fosse l’afasia, una malattia sostanzialmente ignorata in Italia fino agli anni ’80.

Singolare destino di una giovane donna che non amava andare a scuola, e – a differenza dei fratelli, che erano brillanti studenti – finito il liceo voleva fare la maestra di sci! Era un’ottima sportiva!

Sebbene – ancora, a differenza dei fratelli – Mimi non sia mai stata coinvolta nell’impegno politico e culturale del padre, al quale pure era molto legata, tuttavia negli ultimi anni della sua vita si è dedicata con passione, determinazione e grande generosità a quest’ultima impresa.

Con il suo consueto understatement diceva di non sapere nulla dell’attività culturale della Fondazione e tuttavia si è spesa per sostenerne il rinnovamento, a partire dall’unificazione delle due Fondazioni, e assumendo via via maggiori responsabilità dopo la scomparsa di Lucia Zannino e di Carlo Basso nel 2013 e, da ultimo, dopo la scomparsa di Linda Bimbi nel 2017.

Si deve riconoscere che la Fondazione ha avuto spesso la fortuna di potersi avvalere di donne eccezionali. E Mimi ha voluto che fosse scritta la biografia di Linda e pubblicati i suoi scritti.

Ha quindi assunto la funzione di vicepresidente della Fondazione unificata e unica responsabile della sua difficile gestione negli attuali tempi duri del disprezzo per la cultura in generale e per la cultura politica in particolare.

Ha promosso riunioni mensili con tutti i collaboratori della Fondazione, conoscendo nei dettagli il compito di ciascuno, seguendo, stimolando razionalizzando tutte le attività della Fondazione, dalle iniziative internazionali alla scuola di giornalismo, dagli archivi alla biblioteca: e pensare che una volta aveva detto che per lei i libri di Lelio rappresentavano soltanto il ricordo di una fatica mostruosa fatta insieme con i fratelli per trasportarli in pesanti pacchi da un posto all’altro man mano che diventavano più numerosi, e che perciò non aveva voluto possedere dei libri: li leggeva, li consultava, ma non li possedeva!

Ha anche avuto cura, a sue spese, di questo palazzo.

Soprattutto, Mimi ha promosso il rinnovamento ideale della Fondazione organizzando e finanziando gli incontri di Firenze nel 2014 e di Frascati nel 2017 con la partecipazione di studiosi e intellettuali interessati a contribuire a una riflessione comune.

Personalmente ho trovato alcune affinità nella sua riservatezza e sobrietà, nel modo diretto di confrontarsi anche nel dissenso, e nella sua rigorosa laicità.

Ne ammiravo l’impegno, l’integrità, l’autoironia, la grande, volutamente nascosta umanità, e, da ultimo, la straordinaria forza morale con cui ha affrontato la malattia che l’ha uccisa.

Ne ho ammirato in particolare la generosità. E forse oggi posso permettermi di raccontare un piccolo episodio che ho dovuto finora tacere. Allorché si discuteva della riunificazione delle due Fondazioni mi è capitato di dover incontrare qualche volta a Milano i tre fratelli Basso per discutere di alcuni aspetti della complessa operazione, ma una volta, su sua richiesta, incontrai da sola Mimi. L’incontro avvenne in via della Commenda dove io abito e dove lei lavorava, al Policlinico. Andiamo in uno dei due bar nella via (ora ce ne sono molti di più), indicato da Mimi perché l’altro era di un fascista (cosa di cui io non mi ero affatto accorta pur abitando lì da anni). Lo scopo del breve incontro consisteva semplicemente nella consegna da parte sua di un assegno di consistente importo per la Fondazione, che però non si doveva sapere che veniva da lei. Sicché dovetti depositarlo in banca ed emetterne uno di pari importo a nome della Fondazione dicendo che era di un donatore che voleva restare anonimo. Non ho mai saputo se si siano fatte speculazioni su chi potesse essere il generoso anonimo.

La scomparsa di Mimi ci ha lasciato un senso di smarrimento, perché era diventata il nostro punto di riferimento e di speranza per le future sorti della Fondazione, ma sarebbe un oltraggio alla sua memoria se ci lasciassimo andare a questa iniziale reazione: dobbiamo piuttosto cercare di imitare la sua forte determinazione a raggiungere concretamente gli scopi, sempre nobili, che il suo animo generoso si prefiggeva.

Spero che sarà così.

 

Il ricordo di Sergio Poeta

Conobbi Mimi nel 1973, nello studio di Lelio, la stanza poi occupata da Elena Paciotti e ora da Franco Ippolito. Mi venne presentata come Mimi. Sorridente, cordiale nei modi, ma riservata, di pochissime parole. Negli anni successivi, quelli vorticosi del Tribunale Rusell II, ebbi ripetutamente modo di imbattermi di nuovo in lei al quarto piano, il più delle volte quando mi chiamava Lisli per qualche commissione. Salivo in casa, una specie di piccolo Olimpo estraniato sopra la Tessaglia brulicante dei piani inferiori, e spesso mi apriva Mimi. Lassù, nel silenzio ovattato di quella mansarda, Lisli le impartiva ordini bruschi che lei con tutta evidenza appena tollerava: una serie infinita di Mimi qui e Mimi là. Poco dopo il 1978, Lisli si trasferì a Milano e così a Via Dogana Vecchia s’interruppero per qualche anno anche le apparizioni di Mimi, che quasi dimenticai.

Intorno al 1985, Linda mi chiamò senza preavviso per chiedermi di presenziare ad una visita di Mimi. Fu la prima di molte, quasi tutte identiche. Nello studiolo al secondo piano, Mimi arrivava con passo affrettato, glissando il filtro attento di Ruth, si sedeva difronte alla scrivania senza cerimonie introduttive, e con asciutta cortesia chiedeva delle attività della Fondazione internazionale e del Tribunale. Linda, con quel suo fare a metà tra l’episcopale e il domatore di leoni, non si faceva imporre le vie spicce e comiciava una lunga narrazione, dettagliata e circostanziata, punteggiata da dozzine di vedi Mimi, non so se ricordi Mimi, devi sapere Mimi, non puoi immaginare Mimi, e così via, spesso per oltre un’ora. Alla fine Mimi, un po’ affascinata e un po’ sfinita, sfoderava quasi sempre quel suo “io non ci capisco niente” che, a dispetto della semantica, era un sigillo di approvazione. Cominciava a rovistare in una piccola borsa di pelle, tirava fuori un libretto di assegni e ne compilava uno per incoraggiare tutti noi a non mollare. Per Linda, e di conseguenza per me, “Mimi” diventò un motto, un lemma sinonimo di solidarietà. Di solidarietà stoica, dicevo a Linda suggerendole ogni volta di abbreviare i racconti per il timore che Mimi un giorno o l’altro venisse sopraffatta.

Qualche anno dopo, ad una cena a Cambridge con amici italiani, ricercatori e professori a Harvard ed al MIT che frequentavo durante gli assidui soggiorni a Boston, venni presentato ad un neurologo americano che aveva bisogno di aiuti logistici a Roma per organizzare un convegno internazionale sull’afasia. Dopo avermi pazientemente illustrato cos’è l’afasia ed accennato per sommi capi alla questione tecnica, mi spiegò che conditio sine qua non per tenere il convegno in Italia, piuttosto che in Spagna o in Belgio, era riuscire ad ingaggiare la professoressa Anna Basso, un’italiana di cui conosceva tutti gli scritti e che riteneva la più geniale innovatrice nella metodica diagnostica dell’afasia. Aggiunse che costei negli Stati Uniti era tanto stimata quanto inutilmente inseguita . Appariva ai congressi, presentava il suo paper, qualche volta ma non sempre, si sottoponeva a delle sessioni di Q&A, e poi si dileguava. In un’epoca pre-internet, pre cellulari, in cui in pochi possedevano un fax ed in cui attraversare l’oceano non era ancora uso come oggi, era impossibile afferrarla. Tanto che se ne parlava come di un evanescente mistero italiano, di una sciarada del comportamento, di un’inafferrabile folletto della scienza, sfuggente ad ogni ossequio.

Rientrato a Roma, un po’ stimolato dall’opportunità di lavoro, un po’ dalla curiosità di acciuffare il folletto, mi misi a scandagliare le facoltà di medicina. In alcuni casi direttamente, ma per la maggior parte attraverso amicizie. La ricerca si protrasse per qualche mese. Prima dell’era digitale, quello che ora si completa in pochi minuti, poteva rappresentare un lavoro estenuante, e frustrante. Ricordo che finalmente, attraverso un amico ordinario di biologia molecolare, ritenevo di aver individuato la Basso all’università di Padova. Quando scoprii che invece si chiamava Ludovica, credo, che era un chirurgo e che per di più era appena andata in pensione, gettai la spugna e cominciai a evitare i telex che l’americano mi mandava con regolarità per informarsi dello stato della ricerca.

Poi un giorno, passando in Fondazione, seduto sulla sedia nell’anticamera in attesa di Linda, per ingannare il tempo commentavo con Ruth queste recenti frustrazioni. Ruth, che non si scompone nemmeno se le chiedi di trovarti un elefante a pois, come se le avessi domandato appena un bicchier d’acqua, disse: “Non ti preoccupare, faccio io, ora io ti chiamo la Mimi, io c’ho tutti i numeri”. Per qualche istante pensai che non avesse capito, a volte tra Ruth e me è capitato, questione di sintonizzazione linguistica. D’altronde di Mimi ne conosco altre, sono Domenica, Michela, Miriam, perfino Marzia, ma Anna non poteva essere. Invece il folletto ed il motto di solidarietà erano effettivamente la stessa cosa. Due concetti astratti, nella stessa persona fisica. Mi sembrò prodigioso. Ancor più lo sembrò all’americano che non capì mai la storia del motto, solo quella del folletto. Ma prese subito a chiamarla Mimi anche lui. Organizammo il convegno. Assistetti, nella sala plenaria di un anonimo albergo romano, all’ovazione della platea cosmopolita in piedi quando Mimi salì al podio per l’allocuzione. Poche cose in vita mia mi hanno lasciato più stupito. L’eroina di una schiera di neurologi impersonata dalla paladina della solidarietà di una schiera militanti dei diritti umani. Feci in modo di non perderla più di vista.

 

Il ricordo di Gianni Tognoni

Sono passati esattamente 40 dal mio primo incontro con Mimi. Mi aveva chiamato Lelio, per raggiungerlo nella casa di questa figlia che non conoscevo: era appena tornato dal suo ultimo viaggio in Brasile, per la campagna di amnistia, doveva parlare della Lega per i diritti dei popoli,e della preparazione concreta del suo sogno, il Tribunale Permanente dei Popoli. Ricordo di Mimi la bellezza, le pochissime parole, l’invito a raggiungere Lelio nel ristorante quasi sotto casa ,si sarebbe parlato meglio. Se si voleva ci si vedeva per il caffè.Con Lelio sarebbe stato per me, era ottobre, l’ultimo incontro intenso di lavoro prima del suo andarsene,nemmeno due mesi dopo.
La casa e la vita di Mimi appartenevano ad un mondo altro, che era anche, a tempo pieno il mio, quello della ricerca. Non potevo immaginare che gli approcci metodologici e le scelte di priorità che avremmo condiviso collaborando per tanti anni fossero così intrecciate con quanto (lentamente, con tutta la informalità ed il downplaying di cui Mimi era capace, lungo le degustazioni dei buoni vini della casa di via S.Primo 6) ci saremmo trovati a mettere al centro degli interessi, dell’amicizia, di investimenti di intelligenza e di sostegno anche per il Tribunale.
Voglio ricordarle,perché mi sembrano parte del lascito di Mimi alla Fondazione ed al Tribunale.
L’ essenzialità assoluta dei dati, dei tempi , della concretezza di progetti che vogliono esplorare ipotesi, orizzonti di comprensione o di risposta a bisogni inevasi di conoscenza e di intervento. La imprescindibilità di non pretendere mai che i dati che quantificano apparentemente in modo significativo le conoscenze, possano sostituire o rendere meno scientifiche le storie concrete, cliniche e di vita delle persone. La durezza senza compromessi, che era l’altro lato della sua auto-ironia, rispetto a persone/teorie/scuole, che pretendono di vendere soluzioni false /fuorvianti (le aree di ricerca di Mimi erano/sono, tra le tante, una fonte inesauribile di questi scenari). Il disincanto rispetto alle opacità /ritardi/ parzialità dei risultati della ricerca tradotto in progettualità ancor più creativa, esploratrice di alleanze, di risorse, di metodi, avendo come orizzonte il mondo. La infinita disponibilità-dolcezza nel farsi presente (in Italia, e non solo) là dove c’è da far crescere percorsi capaci di ridurre le distanze tra bisogni inevasi e risposte innovative.
Non è stato strano, anzi è stata un’esperienza tanto più bella quanto più ‘naturale’, trovarsi, sempre con le poche parole, ma in tanti modi, a riconoscere che l’antico sogno di Lelio di fare del Tribunale dei Popoli il luogo-strumento di ripresa almeno del diritto, per poi diventare il luogo-strumento di presa di parola e perciò della dignità e dell’autonomia dei popoli coincideva, in fondo – per la rilevanza, la difficoltà degli obiettivi, la frammentazione dei bisogni, la diversità delle esigenze e dei cammini, la possibilità di fallimenti, la necessità di non rinunciare – con il sogno di ricerca/vita di Mimi: quello di fare della afasia un progetto di liberazione (prodotto collettivo di scienza e di prossimità concreta alle persone), e non la diagnosi di una condanna cui rassegnarsi.
La ‘afasia’ dei popoli è così divenuta, per Mimi, a tempo sempre più pieno, senza bisogno di competenze tecniche specifiche, ma con la sua coscienza lucida di cittadina e scienziata che aveva vissuto sempre agli incroci critici della democrazia, una compagna privilegiata di strada dei suoi ultimi anni.
Ed è stato bello poterle regalare, prima del suo lasciarci, il dono a cui teneva tanto: il reciproco riconoscimento nei due Statuti della complementarietà tra Fondazione e Tribunale.
Ed un grazie profondo, Mimi, per questi tuoi ultimi mesi, tanto lunghi e tanto brevi, per non avere mai smesso – che si parlasse medicalmente della tua situazione clinica, o chiedessi di raccontare l’ultimo Tribunale, sui Rohingya o sui migranti o sui Kurdi- di appartenere, con curiosità e dolcezza, ad un futuro sul quale sono d’obbligo tante domande, da affrontare senza averne paura.

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