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Spazio ed eguaglianza: un terreno di contesa per un’egemonia progressista nel XXI secolo

Spazio ed eguaglianza: un terreno di contesa per un’egemonia progressista nel XXI secolo

Di Sirio Zolea (Assegnista di ricerca presso l’Università di Macerata, professore a contratto presso l’Università di Teramo)

Si vuole in questo contributo offrire qualche riflessione su come le politiche spaziali e le relative discipline giuridiche si incrocino con le problematiche delle diseguaglianze, forse anche, in qualche misura, nell’auspicio di provare a elaborare e suggerire in proposito qualche indirizzo conseguente al decisore politico, se non quello di oggi, almeno, si spera, quello di domani. Penso che in effetti l’impostazione delle politiche spaziali sia tutt’altro che indifferente, in termini strategici, rispetto all’eguaglianza sociale, e questo in almeno due diversi sensi: in primo luogo con riferimento all’eguaglianza tra gli Stati: potenze spaziali storiche, potenze spaziali emergenti, altri Stati con capacità spaziali più o meno ampie, tendenzialmente nel quadro di collaborazioni internazionali e, infine, Paesi con capacità spaziali molto limitate o nulle, com’è per una gran parte dei Paesi del terzo mondo. Ma le modalità dell’accesso allo spazio possono anche incidere sui rapporti tra le classi sociali all’interno dei singoli Stati, secondo come i suoi proventi siano redistribuiti e quindi, a monte, secondo quale assetto egemonico caratterizzi a livello nazionale (o di gruppo di Stati economicamente integrati) la filiera industriale spaziale. È pertanto opportuno, come cercherò di articolare più ampiamente in conclusione, che forze politiche ascrivibili all’area progressista considerino nella sua politicità la questione spaziale e aprano la loro progettualità programmatica all’idea di un suo sviluppo, a egemonia pubblica, orientato al disegno costituzionale di progresso materiale e spirituale della Nazione nella giustizia e solidarietà sociale.

Comincerò con il primo dei due profili che ho menzionato, attribuendovi un maggiore spazio. Il Trattato sui principi che governano le attività degli Stati in materia di esplorazione ed utilizzazione dello spazio extra-atmosferico compresa la Luna e gli altri corpi celesti, del 1967, è praticamente l’atto posto a base dell’intero diritto dello spazio, ratificato da moltissimi Paesi tra cui le principali potenze spaziali, e pure dall’Italia. Esso è ispirato a principi umanistici di coesistenza e di cooperazione tra le Nazioni e vi si affermano, in condizioni di parità tra gli Stati, i principi del libero accesso, uso, esplorazione e ricerca scientifica nello spazio e nei corpi celesti, di cui l’esplorazione e l’utilizzazione, da condursi nel bene e nell’interesse di tutti i Paesi, sono prerogative dell’intero genere umano. Si limita inoltre l’utilizzo della Luna e degli altri corpi celesti ai soli scopi pacifici. Lo spazio e i corpi celesti sono anche esclusi da ogni forma di appropriazione nazionale, né sotto pretesa di sovranità, né attraverso utilizzazione od occupazione, né con qualsiasi altro mezzo. Lo sfruttamento commerciale delle risorse spaziali, che non sembrava all’epoca una questione seriamente attuale, non risulta né chiaramente consentito, né chiaramente vietato. Naturalmente, tantomeno si poneva ancora concretamente la questione di attività spaziali private, che non entrava esplicitamente nel Trattato, sebbene esse siano senz’altro coperte della previsione secondo cui gli Stati assumono responsabilità internazionale per le loro attività nazionali nello spazio extra-atmosferico, senza distinguere se effettivamente svolte da soggetti privati o pubblici. Anche per questo, oltre a evidenti ragioni di sicurezza, i diritti e le prassi amministrativi nazionali prevedono complessi procedimenti autorizzatori, vagliando più o meno attentamente la sostenibilità tecnica e finanziaria di attività private che, in caso di danni al territorio di altri Stati, sul piano internazionale ricadranno nella responsabilità e nel dovere risarcitorio dello Stato di lancio.

Che dire, nell’insieme, delle disposizioni di questo trattato? Sicuramente, lette oggi, esse testimoniano del passare del tempo e palesano dubbi e lacune che solo in parte possono dirsi fugati dal sopravvenire, negli anni subito successivi, di ulteriori convenzioni negoziate in sede ONU per svilupparne aspetti più specifici: il salvataggio degli astronauti e il rientro degli astronauti e degli oggetti spaziali; la responsabilità per danni causati dagli oggetti spaziali; la registrazione di tali oggetti. L’allargarsi, ormai presso tutte le potenze spaziali, di un ruolo dei privati nell’utilizzo dello spazio pone con crescente urgenza la necessità di nuovi strumenti convenzionali per meglio regolarne il regime giuridico nel consenso della comunità internazionale. Purtuttavia, mi sembra tuttora un fatto positivo che i fondamenti del diritto dello spazio si siano posti attraverso quel trattato negoziato in quel momento, in una fase storica di espansione nel mondo di valori progressisti, umanisti e di emancipazione, in piena decolonizzazione, in un periodo in cui la contrapposizione tra blocchi geopolitici imponeva agli stessi, tra molte contraddizioni, una sfida a superarsi pure nei valori per guadagnare o preservare un ruolo di punto di riferimento anche “morale” e valoriale del mondo, portando dalla propria parte gli Stati di nuova formazione e mantenendovi saldi quelli già schierati. Pertanto, se ci si trovasse oggi a dover redigere da zero la Magna Carta del diritto dello spazio, dopo un trentennio in Occidente di individualismo e di ideologia di “fine della Storia”, non so quanto di quegli elementi progressisti, umanisti e pacifisti, di persistente attualità, potrebbe innervare il trattato. In effetti, la ritrosia, periodicamente riemergente nei dibattiti politici e istituzionali statunitensi, ad accettarne pienamente la portata non fa che confermare l’attuale ruolo di tale trattato come baluardo del multilateralismo nelle politiche spaziali. Pertanto, ciò non costituisce una questione di secondo piano, perché, considerata l’importanza tanto economica quanto geopolitica dello spazio, si evidenzia come un approccio multilaterale sia il miglior presidio strategico contro il rischio concreto che il contrapporsi delle ambizioni spaziali delle nazioni e dei blocchi geopolitici possa tradursi in un’aperta conflittualità militare, facendo sprofondare nell’abisso dell’orrore quella che c’è invece da sperare che resti una delle più grandi speranze per una nuova fase di progresso materiale e spirituale dell’Umanità.

È importante menzionare come proprio gli aspetti più progressisti e collaborativi espressi nel trattato del 1967 abbiano trovato sviluppi anche più marcati nel (forse troppo) lungimirante Accordo che regola le attività degli Stati sulla Luna e sugli altri corpi celesti, del 1979, l’ultimo dei trattati spaziali promossi dalle Nazioni Unite e, purtroppo, ad oggi, il più fallimentare, mai firmato, né tantomeno ratificato, dalla maggior parte degli Stati con capacità spaziali, malgrado il supporto espresso dall’Assemblea generale ONU. Esso costituisce in qualche modo il culmine, ma anche, con il suo insuccesso, l’emblema della crisi della stagione dei trattati spaziali degli anni ’60 e ’70, accogliendo in una misura importante le istanze dei Paesi emergenti. L’Accordo in gran parte puntualizza e sviluppa principi emersi nelle convenzioni precedenti: esplorazione e utilizzo dello spazio a fini esclusivamente civili, libera ricerca scientifica, promozione di una cooperazione paritaria tra Stati, loro responsabilità internazionale per le attività nazionali condotte sulla Luna da entità sia governative sia non governative. Ma, nel riconoscere i possibili vantaggi promananti dallo sfruttamento delle risorse naturali spaziali, questo trattato accentua, dell’esplorazione e dell’utilizzo del cosmo, l’orientamento al bene e all’interesse di tutti i Paesi, tenendo conto degli interessi delle generazioni presenti e future. Le previsioni più notevoli sono quelle dell’articolo 11, che considera la Luna e le sue risorse naturali come un patrimonio comune dell’Umanità, con la conseguenza che gli Stati contraenti si impegnano a istituire un regime internazionale (che nella realtà non è mai stato effettivamente istituito) per lo sfruttamento economico delle risorse lunari, quando tale sfruttamento sarà sul punto di diventare possibile, un regime volto, in sintesi, alla valorizzazione sistematica e senza rischi e alla gestione razionale delle risorse naturali, allo sviluppo delle loro possibilità di utilizzo e alla realizzazione di un’equa ripartizione dei vantaggi tra tutti gli Stati contraenti, con un’attenzione particolare agli interessi e bisogni dei Paesi in via di sviluppo e dei Paesi che hanno contribuito, direttamente o indirettamente, all’esplorazione della Luna. Un simile regime di patrimonio comune dell’Umanità, con implicazioni di solidarietà tra Stati sviluppati e in via di sviluppo, ma anche di solidarietà intergenerazionale tra gli uomini di oggi e quelli di domani, è quello instaurato, con maggior successo, dalla Convenzione di Montego Bay sul diritto del mare del 1982, con riferimento ai fondali marini e ai loro sottosuoli, al di là dei limiti delle giurisdizioni nazionali. Nello stesso articolo 11 del Trattato sulla Luna, si ribadisce e si specifica che la Luna non può essere oggetto di appropriazione nazionale e che né la superficie, né il sottosuolo lunare, né alcuna sua parte o le risorse naturali in loco (cioè, prima della loro rimozione o estrazione) possono divenire proprietà di Stati, di organizzazioni internazionali intergovernative o non governative, di organizzazioni nazionali, di entità governative o di persone fisiche: sono così finalmente presi espressamente in considerazione i soggetti privati. L’installazione in superficie o sotto la superficie lunare di personale o di veicoli, materiali, stazioni, installazioni o equipaggiamenti spaziali, comprese opere unite al suolo o al sottosuolo, non crea diritti di proprietà su alcuna parte della Luna.

La mancata ratifica del Trattato da parte delle principali potenze spaziali mostra come esso fosse magari troppo “all’avanguardia” per ottenere il necessario consenso. L’implicazione, per esempio, di dover riservare una quota parte, o una parte dei proventi delle attività estrattive, per gli Stati con poche o nulle capacità spaziali per il momento, si è mostrata poco allettante per le potenze che hanno più investito nello spazio, desiderose del massimo ritorno economico appena possibile dei propri stanziamenti e di soddisfare i soggetti privati imprenditoriali nazionali a loro volta interessati alla ricerca del massimo profitto. Da questa situazione deriva un regime giuridico attuale complesso e articolato, per cui il principio di “Patrimonio comune dell’Umanità” può solo riferirsi agli Stati che hanno ratificato il Trattato sulla Luna, mentre per gli altri pare valere un principio di res communis omnium della superficie e del sottosuolo dei corpi celesti, con la regola first come first served, di libertà delle attività di sfruttamento, purché realizzate nel rispetto del Trattato del 1967. Il punto, va detto, non è meramente tecnico e non manca di implicazioni profondamente politiche in tema di eguaglianza, traducendosi lo iato tra i regimi dei due trattati nella differenza tra un’eguaglianza formale da un lato ed elementi di eguaglianza sostanziale e di giustizia distributiva dall’altro lato, un po’ come quelli che, per fare una metafora, nei rapporti tra consociati, caratterizzano in senso sociale il nostro ordinamento costituzionale.

Ci troviamo in un momento in cui, finalmente, sembra che siamo davvero molto vicini all’inizio di uno sfruttamento economico delle risorse spaziali, a cui soggetti pubblici e privati di molti Paesi mirano ormai in maniera concreta e con tabelle di marcia spedite. Il Presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha recentemente definito la politica spaziale europea, insieme a un settore spaziale forte e dinamico, essenziale per l’attuazione delle strategie in materia climatica e digitale, avendo peraltro lo spazio un impatto diretto sull’obiettivo geopolitico di autonomia strategica. Non sembra assurdo ipotizzare, e anzi lo dicono vari analisti finanziari, che nei prossimi anni, se le tappe ora prospettate saranno rispettate, il settore spaziale potrà conoscere uno sviluppo paragonabile a quello che nei decenni precedenti ha caratterizzato il settore informatico. Tutto ciò, in regimi democratici, non può essere assolutamente lasciato soltanto ai “tecnici” o alla presunta capacità autoregolativa del mercato, bensì deve essere governato nel segno dei valori costituzionali. Ma prima di avanzare alcune proposte in questo senso, è bene ancora spendere qualche parola su alcune novità importanti in certi diritti nazionali e su un accordo internazionale implicanti lo sfruttamento delle risorse spaziali, per capire come, anche se la stesura dei grandi trattati spaziali multilaterali si è fermata nel 1979, il diritto dello spazio sia comunque di nuovo in fermento a questo proposito, sulla spinta del progredire di nuovi programmi spaziali sempre più ambiziosi, con l’aspettativa statunitense e dei loro alleati di riportare esseri umani sulla Luna entro il 2024, e per altro verso, forse tra loro in alleanza, la Russia che cerca di non restare troppo indietro e la Cina che tenta di esprimere anche in ambito spaziale le proprie ambizioni di neo-superpotenza mondiale in grado di tenere testa agli Stati Uniti.

Come si è accennato, il silenzio del Trattato del 1967 lascia spazio a interpretazioni discordanti sulla legittimità dello sfruttamento delle risorse spaziali, ma secondo i più il principio della libertà di uso ed esplorazione che vi è affermato sembra deporre in senso favorevole. Alcuni Stati hanno recentemente inteso normare unilateralmente lo sfruttamento delle risorse spaziali: così gli Stati Uniti, in Europa il Lussemburgo, più recentemente persino gli Emirati Arabi Uniti. Negli Stati Uniti, la legge, del 2015, Commercial Space Launch Competitiveness Act, attribuisce allo sfruttatore statunitense di risorse spaziali una sorta di posizione proprietaria su di esse, abbastanza ampia da porlo al riparo da rischi di una successiva rimessa in discussione da parte delle autorità nazionali delle prerogative sulla cosa estratta. Ciò va incontro alle richieste che erano pervenute dalle imprese americane interessate a questo potenziale campo di business. Malgrado la legge rassicuri che attraverso di essa gli USA non intendono in alcun modo rivendicare sovranità o diritti esclusivi di giurisdizione o la proprietà di copri celesti, non sono mancate inquietudini espresse da studiosi o da altri Paesi sui pericoli insiti nell’unilateralismo americano, palesandosi il rischio di una corsa all’accaparramento delle risorse. Un unilateralismo, ostile allo spirito e ai contenuti dell’Accordo internazionale sulla Luna, che alcuni ordini esecutivi del Presidente Trump hanno ulteriormente accentuato. La legislazione lussemburghese si inquadra nell’ambizione di tale piccolo Paese di diventare un polo industriale spaziale europeo di rilievo e attirare così imprenditori interessati a operare nel settore, fornendo, primi in Europa, certezza agli operatori privati sull’appropriabilità delle risorse spaziali da essi estratte, purché rispettino le condizioni di autorizzazione di missione dettagliatamente definite nel testo (tra cui, a differenza degli USA, non figura la nazionalità lussemburghese dell’impresa). Il Lussemburgo pone attenzione nel presentare la propria legislazione come conforme al quadro giuridico internazionalistico, facendo leva sulla distinzione tra inappropriabilità dei corpi celesti in sé stessi, del trattato del 1967, e (presunta) appropriabilità delle risorse.

È poi importante menzionare gli Accordi Artemis, che costituiscono atti politicamente e giuridicamente fondativi della nuova ascesa allo spazio degli USA e dei loro alleati (tra cui l’Italia). Tali accordi, del 13 ottobre 2020, prendono il nome dal programma a guida statunitense che dovrebbe riportare l’umanità sulla Luna entro il 2024, stavolta con l’idea di costituirvi un insediamento stabile. Essi contengono principi per la cooperazione nell’esplorazione civile e nell’utilizzo di Luna, Marte, comete e asteroidi per fini pacifici e si richiamano al più generale quadro dei trattati ONU che hanno ottenuto maggiore successo in termini di ratifiche, tra cui in particolare quello del 1967, sviluppandone le regole, con effetto naturalmente tra le sole parti coinvolte, in vista delle prossime tappe dell’esplorazione del cosmo. Vi sono più volte riferimenti alla presenza di partner commerciali privati e si promuovono l’estrazione e l’utilizzo delle risorse spaziali, secondo criteri di sicurezza e sostenibilità delle attività, precisando che tali operazioni e i contratti e altri strumenti giuridici impiegati devono essere conformi con i principi del Trattato del 1967 e non comportare appropriazione nazionale di corpi celesti, come da questo vietato. Problematica appare però la sezione 11 degli Accordi, sebbene intitolata al proposito di evitare conflitti nelle attività spaziali. Oltre a prevedervisi, tra l’altro, ragionevolmente, l’astensione degli Stati firmatari da ogni azione che possa creare pericolose interferenze tra le rispettive attività spaziali svolte in conformità degli Accordi e scambi d’informazioni sul luogo e la natura delle operazioni per evitare tali interferenze, si stabilisce altresì la creazione di safety zones temporanee (che gli altri contraenti sono tenuti a rispettare), comunicando le attività che vi si svolgono e coordinandosi con ogni soggetto interessato. Queste sarebbero aree in cui ipotetiche operazioni di una rilevante attività o un evento anomalo potrebbero ragionevolmente causare interferenze pericolose, dalle dimensioni e dall’ambito da determinarsi, comportando conseguenti esigenze di coordinamento, secondo la natura delle operazioni e l’ambiente in cui esse sono realizzate. Malgrado il richiamo del testo al rispetto del principio del libero accesso a tutte le aree dei corpi celesti e degli altri principi sanciti dal Trattato del 1967, resta da vedersi con quali modalità gli Stati firmatari intendano effettivamente applicare la costituzione e la protezione di queste safety zones e quanto il resto della comunità internazionale sarà disposto ad accettare tali modalità, anche in relazione al divieto di appropriazione nazionale dello spazio.

Proprio su questo possono proporsi alcuni spunti di ordine politico. Prima di tutto, è opportuno che l’Italia – tradizionalmente propensa, sullo scacchiere delle relazioni internazionali, a spendersi in senso multilateralista e favorevole alla coesistenza pacifica – si mantenga fedele a questa sua storia e, essendo tra i Paesi coinvolti in tali accordi, eserciti il proprio influsso affinché essi siano attuati nella piena conformità, di forma e di sostanza, ai trattati negoziati in sede ONU che la comunità internazionale nel suo insieme riconosce come base del diritto dello spazio. Magari, anche recuperando, se non il Trattato sulla Luna in sé, forse condannato a rimanere lettera morta, almeno il suo spirito di eguaglianza anche sostanziale e di solidarietà tra i popoli, che è bene ispiri le pratiche spaziali, i prossimi accordi di coordinamento tra Stati alleati e, perché no, speriamo presto, un nuovo accordo internazionale multilaterale che veda partecipi intorno a un tavolo tutte le attuali potenze spaziali, requisito prezioso per un prosieguo pacifico e luminoso dell’avventura spaziale umana. A questo proposito, un approfondimento dei rapporti anche in ambito spaziale con Paesi come la Cina, che per l’Italia è già un partner commerciale di rilievo, potrebbe contribuire a rafforzare un ruolo di mediazione del nostro Paese, come Nazione che, pur parte attiva degli Accordi Artemis, dialoghi proficuamente con tutti gli attori spaziali per aiutarne la pacifica coesistenza in un’esplorazione e un utilizzo del cosmo svolti nell’interesse dell’umanità intera, traendone conoscenza, benessere e sviluppo per tutti, spegnendo invece che rinfocolando odi e conflitti tra popoli. Inoltre, sotto un altro aspetto sarebbe ora che le politiche spaziali trovassero un più ampio spazio nel dibattito del Paese, anche con auspicabili ricadute normative. In quest’ottica, costituirebbe uno sviluppo di estremo interesse, se pure l’Italia decidesse di dotarsi di una legge sullo sfruttamento delle risorse spaziali, magari distinguendosi da quelle già emanate altrove per un maggior coraggio nell’attingere alla tradizione giuridica di civil law (penso in particolare al sistema dei diritti reali minori, opportunamente rivisitato: per maggiori dettagli, rinvio all’articolo S. Zolea, “Esplorazione spaziale e nuove forme di appartenenza: spunti comparativi”, in “The Cardozo Electronic Law Bulletin”, 2020, vol. 26, issue 1, pp. 1-41) e ad una comparazione senza pregiudizi con altre famiglie di diritto per offrire soluzioni più compiute e tecnicamente definite, bilanciando conformemente allo spirito dei trattati e al nostro impianto costituzionale interessi nazionali, pubblici e privati, e salvaguardia del patrimonio comune dell’Umanità. Un tale approccio, fondato su basi più certe e collaborative, volto a ottenere un più ampio riconoscimento nella comunità internazionale – magari anche nell’auspicio d’ispirare in qualche misura le trattative per la stesura di futuri trattati – potrebbe rivelarsi utile per attirare in Italia gli investimenti degli imprenditori più solidi e responsabili interessati a operare nel campo, contribuendo a un possibile nuovo slancio nel nostro Paese per un settore economico innovativo e avveniristico. L’Italia ha un’Agenzia spaziale di prestigio e investe significativamente in questo ambito; ha una comunità giuridica con un alto grado di maturità scientifica tanto in materia internazionalistica quanto in materia comparativa e anche l’elaborazione italiana degli ultimi anni in tema di beni comuni può offrire spunti validi. Per questo auspico che tutto ciò non sia lasciato cadere nel vuoto e che l’Italia confermi politicamente e giuridicamente, con lo spirito di solidarietà che appartiene alla nostra tradizione costituzionale, quel posto da co-protagonista nell’avventura spaziale del XXI secolo che il lavoro degli ingegneri, fisici e astronauti italiani le ha guadagnato.

Vengo ora conclusivamente al secondo, forse meno intuitivo, aspetto che avevo precedentemente evocato del connubio “spazio ed eguaglianza”: quello che attiene a come l’articolazione delle politiche spaziali e delle relative norme possa in qualche modo influire sullo sviluppo interno dei rapporti di classe nel Paese. Naturalmente a questo proposito non ci si riferisce a rapporti immediati di causa-effetto, bensì a conseguenze strategiche, anche di amplissima portata, di certe scelte che potrebbero essere prese oggi. È bene non dimenticare i successi, a partire dalla grande crescita, che hanno caratterizzato la fase di “economia mista” pubblico-privata in Italia, con la grande impresa pubblica a sopperire alla frammentazione e all’attitudine dinastica delle imprese private, poco inclini a investire e a fare ricerca e votate a massimizzare il profitto nel breve periodo. Naturalmente, questi investimenti e questa politica industriale finivano per giovare e arricchire anche le imprese private, coinvolte nell’indotto e comunque spinte a loro volta a investire. Ora, lo spazio, per i grandi investimenti che richiede, per la necessità di un raccordo degli investimenti stessi intorno all’avanzare di programmi ambiziosi centralmente definiti, per le rilevanti attinenze geopolitiche e di sicurezza nazionale, si presenta tuttora come un settore che ben si candida all’egemonia pubblica, con un ruolo dei privati soprattutto di soddisfare le commesse più semplici e un’auspicabile sinergia con il tessuto delle università pubbliche. È vero che, soprattutto negli Stati Uniti, alcuni magnati si stanno ritagliando, con il consenso della politica, un ruolo in ambito spaziale sempre meno sussidiario alla commessa pubblica. È vero pure, d’altronde, che in Italia e in Europa le cose non sembrano dover seguire necessariamente lo stesso schema e che da noi permangono grandi poli aerospaziali a prevalente controllo pubblico. Pertanto, il mio auspicio, rispetto a cui mi pare fondamentale che il decisore politico sia sensibilizzato, è che questa occasione di rilancio di un settore economico strategico in grande espansione attraverso un rilancio dell’intervento economico pubblico non cada nel vuoto, essendo forse proprio l’ultima occasione per non lasciare per i prossimi decenni il tessuto produttivo italiano un cumulo di macerie. Non è fantascienza, bensì questione di priorità politiche, concepire un rinnovato ruolo propulsivo del pubblico nel settore spaziale, con grandi investimenti in un ambizioso programma di sviluppo e, per giungere a un’autonoma capacità di lancio, con il coinvolgimento delle forze armate per fornire ipotetiche piattaforme di lancio e magari accordi con Paesi amici del terzo mondo le cui caratteristiche geografiche meglio si prestino a far partire vettori di maggiori dimensioni. Questa mi sembra l’unica via per fare dello spazio non l’ennesimo settore in cui qualche oligarca cerca di ottenere il massimo profitto col minimo sforzo, magari intercettando fondi pubblici a pioggia e giocando sul ridurre il costo della manodopera, bensì che sia il volano per una rinnovata egemonia pubblica nei settori strategici della produzione, un’egemonia volta non solo a tornare a investire e crescere, bensì anche a orientare lo sviluppo in senso sociale, redistribuendo strategicamente le ricchezze ottenute e contribuendo in maniera vitale alla realizzazione del disegno solidaristico costituzionale, drammaticamente abbandonato in questi decenni di ubriacatura neoliberista e di vincolo esterno in economia.

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