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[PDF] Intervento di Franco Ippolito al convegno “Salvatore Senese magistrato e parlamentare l’impegno di una vita nelle istituzioni e nella società civile”

Salvatore Senese

magistrato e parlamentare l’impegno di una vita nelle istituzioni e nella società civile

 

1. Sono tanti gli estimatori, i colleghi, gli amici di Salvatore Senese, che hanno voluto essere presenti a questa giornata. E tanti ci hanno fatto pervenire un saluto, un ricordo, un pensiero, esprimendo soprattutto il rammarico per non aver potuto essere qui con noi.Tra questi ricordo, per il particolare spessore e calore del contenuto dei messaggi, Giovanni Palombarini, Nello Rossi, Vittorio Borraccetti e Perfecto Andrés Ibañez, autorevole giurista e magistrato spagnolo, tra i fondatori e dirigenti di Jueces para la democracia.

Non è facile, per quelli che lo hanno frequentato, parlare al passato di Salvatore, così fortee intensa è stata l’interlocuzione professionale e intellettuale che si aveva con lui; una interlocuzione sempre stimolante, del cui arricchimento ti accorgevi immediatamente, proprio mentre ti parlava.

Salvatore è stato, per molti della mia generazione,un maestro, una guida, un punto di riferimento sicuro. Per me è stato molto di più; la sua scomparsa ha costituito una perdita anche personale, come di un fratello maggiore (non solo per età) a cui mi sono accompagnato per anni di intensa collaborazione: in magistratura, nel CSM, in Corte di cassazione; nella Fondazione Basso, di cui è stato tra gli esponenti più attivi,sin dai tempi del sodalizio con Lelio Basso,soprattutto sui temi internazionali; nel Tribunale Permanente dei Popoli, del quale è stato autorevole presidente per un decennio, portando l’esperienza maturata anche come relatore nel Tribunale Russell IIsulle dittature dell’America Latina.

2.I tanti messaggi pervenuti alla Fondazione, anche dall’estero, ne hanno evidenziato l’impegno etico, il rigore intellettuale, la cultura giuridica e politica che davano spessore alle sue attività nelle istituzioni e nella società civile, interna e internazionale, attorno ai poli del diritto e della politica,che erano i suoi campi di riflessione e di impegno democratico,i due poli di tensione permanente, al di là delle contingenti e sovente inutili polemiche, che pure da noi sembrano non avere mai termine, finendo per scaricarsi sulla giurisdizione, istituzione di frontiera tra società e Stato (così la concepiva Senese) e per occultare la sostanza positiva di quella tensione, che è fisiologica nello Stato costituzionale di diritto, dove nessun potere è assoluto e sovraordinato rispetto all’altro.

Per celia qualche amico ebbe ad affermare che, per Salvatore, il centro del mondo istituzionale mutava localizzazione secondando i suoi spostamenti, dalla magistratura di merito al CSM, dalla Corte di Cassazione al Parlamento della Repubblica (dal 1992 al 2001, prima alla Camera e successivamente al Senato, eletto come indipendente nelle liste del Partito Democratico di Sinistra).

La realtà è che in ogni nuova esperienza istituzionale egli coniugava l’esercizio pratico dell’attività svolta con una profonda analisi, anche teorica, sul senso della funzione che in quell’istituzione si esercitava. E la sua riflessione, condivisa collettivamente e resa pubblica, disvelava tutte le valenze – magari ancora soltanto potenziali perché non ancora compiutamente esplorate – di innovazione e di vitalità democratica dell’istituzione in cui di volta in volta si trovava ad operare, cercando una coerenza pratica capace di inverarne il senso profondo e l’autentica ragione d’essere per l’ordinamento giuridico democratico e per il sistema istituzionale.

Su questi passaggi da una funzione all’altra, dall’esercizio della giurisdizione alla politica e viceversa, Senese – come hanno scritto i magistrati toscani di Md –“dava l’impressione di svolgere sempre lo stesso mestiere: che stesse in un’aula di giustizia o in un’aula del Parlamento la sua enorme cultura giuridica (che non esibiva mai), gli consentiva di individuare l’interesse pubblico come unica guida di ogni suo intervento. Che facesse il giudice o il senatore della Repubblica gli obiettivi non cambiavano: l’attuazione ferma dei principi costituzionali, la realizzazione del principio di eguaglianza tra i cittadini, l’indipendenza della magistratura da ogni potere”.

In questa fase della vita del nostro Paese, sovente segnata da cadute non solo di stile e di costume, ma anche da arretramento culturale e deontologico e da comportamenti suscettibili di valutazione penale, è stato efficacemente ricordato da Giuseppe Cascini che Senese ha costituito la “testimonianza vivente della possibilità di un rapporto sano, proficuo, fecondo tra magistratura e politica. Come magistrato non ha mai fatto mistero della dimensione pienamente politica della giurisdizione”, intesa come intrinseca politicità della dinamica istituzionale nella convivenza civile e democratica, di politicità“con la quale si è sempre confrontato in quel bisogno estremo di razionalizzazione e di trasparenza,con piena imparzialità tra i contrapposti interessi e con piana indipendenza da ogni potere esterno e interno alla magistratura”.

Possiamo ben dire che ha contribuito a rinnovare la cultura giuridica e giudiziaria del nostro Paese in età repubblicana come pochi hanno saputo fare, e tra questi innanzitutto Luigi Ferrajoli, che illustrerà con la sua la relazione gli insegnamenti che Senese ci ha lasciato.

Del contributo fondamentale che ha dato alla magistratura e all’associazionismo giudiziario italiano ed europeo tratteranno Edmondo Bruti Liberati e Mariarosaria Guglielmi, mentre il ruolo svolto da Senese nel Tribunale Permanente dei Popoli sarà tratteggiato dall’attuale presidente Philippe Texier.

L’attività di deputato e di senatore sarà ricordata da testimoni che con lui condivisero anni intensi di vita parlamentare: il presidente Marcello Pera, il sen. Massimo Brutti e l’on. Luigi Saraceni, il quale, prima di condividere con lui esperienze di associazionismo giudiziario e di vita parlamentare, ha condiviso una fraterna antica amicizia sin dai tempi di Castrovillari.

3. In questo intervento introduttivo mi limiterò a far cenno alla riflessione e al contributo di Salvatore su due aspetti che intersecano diritto e politica, e che hanno costituito un filo ininterrotto della sua riflessione sul ruolo del diritto e della giurisdizione per contrastare la cultura e la pratica della guerra e per apprestare una compiuta tutela effettiva ai diritti fondamentali di ogni persona, senza distinzione tra cittadini e stranieri.

Si tratta di temi di acuta attualità: basti pensare alla guerra di Erdogan contro il popolo curdo e alla questione dei migranti in Italia e in Europa, problemi di fronte ai quali l’Unione Europea e i suoi Stati membri continuano nella contraddizione tra dichiarazioni retoriche sui diritti e comportamenti pratici che tali diritti negano.

Sul primo versante, va innanzitutto ricordatol’apporto da lui fornito, a conclusione del Tribunale Russell II, all’elaborazione della Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, che fupoi approvata in una conferenza internazionale convocata da Lelio Basso ad Algeri il 4 luglio 1976, a 200 anni dalla dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America.

Il punto di partenza della Carta di Algeri e del sistema di principi lì espressiè il superamento di quella concezione e di quella pratica che dissolvono il popolo nello Stato, mentre proprio l’esperienza dei Tribunali Russell aveva dimostrato che non infrequentemente è proprio lo Stato a violare i diritti del proprio stesso popolo, privandolo dei diritti di libertà e del diritto di autodeterminazione, pur riconosciuti dal diritto internazionale.

Senese coglieva e valorizzava (come aveva fatto nella sentenza del TPP sull’Afghanistan pronunciata a Parigi nel dicembre 1982) “la contraddizione tra la politica di potenza di un paese e la volontà di pace che esso proclama, tra l’azione di un governo e le aspirazioni del popolo che rappresenta”.

Sulla tematica del diritto dei popoli, come nuovo diritto per rinnovare l’ordine giuridico internazionale, Senese non ha mai cessato di insistere. Mi limito a menzionare, per la compiutezza dell’analisi,un saggio che apriva un impegnativo e importante fascicolo (n. 2/1984) di Problemi del socialismo, dedicato alle “Culture della pace e della guerra”, con contributi, tra gli altri, di Norberto Bobbio, Alessandro Langer, Luigi Manconi, Leonardo Paggi, Giuliano Pontara. Si era nella prima metà degli anni ’80: gli anni dell’istallazione dei missili in Europa e della paura dell’apocalisse nucleare.

Cito quello scritto, tra i tanti da lui dedicati all’argomento (tra cui le numerose voci redatte per il Dizionario dei diritti umani dell’UTET 2007), perché aveva come destinatario principale il ceto dei giuristi, teorici e pratici. Era una sollecitazione e uno stimolo alla loro responsabilità di uomini di cultura e di operatori del diritto ad affrontare il nesso diritto/guerra, la cui ampiezza d’implicazioni abbraccia “il nesso democrazia e orientamenti della politica estera e militare dello Stato; tra sovranità popolare e statuale, da un lato, e sistema di alleanze militari e complessità tecnologica degli odierni armamenti, dall’altro; tra forme e tecniche di organizzazione della convivenza umana, da una parte, e diritti fondamentali della persona, dall’altra. Attraverso il diritto, insomma – scriveva Senese – sono le stesse categorie della politica ad essere messe in questione, sottoposte a verifica, costrette a misurarsi con l’etica”.

Prendeva le mosse dal dibattito molto vivo tra i giuristi e i giudici in Germania, che sui temi della pace e della guerra avevano posto in discussione la concezione statualistica del diritto. Egli pungolava i giuristi italiani sulla doverosità di impegnarsi nella costruzione di un nuovo diritto, antitetico alla cultura e alle ideologia della guerra. Avvertiva la specifica responsabilità del giurista-giudice, che non poteva eludere un interrogativo:“può la giurisdizione disinteressarsi di questioni che chiamano in causa i fondamenti di legittimità della democrazia e dello Stato di diritto?”.

Si trattava per lui di un interrogativo retorico, giacché la responsabilità di cittadino, di giurista, di giudice della seconda metà del ‘900, segnata da quel fondamentale cambio di paradigma costituito dal nuovo rapporto Stato/persona, su cui erano state costituite le Nazioni Unite e il nuovo diritto internazionale, i diritti umani e i diritti dei popoli, toglie allo sovranità dello Stato il potere assoluto sia interno che esterno e nefa uno strumento di realizzazione delle finalità di pace, di liberazione, di affrancamento della persona umana da ogni dominio eteronomo.

Dopo la rivoluzione copernicana rappresentata dalla Carta delle Nazioni Unite e dagli altri strumenti internazionali, “la politica degli Stati obbedisce ai medesimi imperativi e incontra i medesimi vincoli, sia che si tratti di cittadini sia che si tratti di non cittadini”. In particolare, la sovranità statuale incontra diversi limiti:

  • nei diritti umani, a tutela universale della dignità umana;
  • nel principio di autodeterminazione, a tutela della soggettività dei popoli;
  • nel divieto di guerra, che da prerogativa della sovranità diviene illecito internazionale1.

Senese sottolineava che “lo Stato di diritto appare come quello Stato del quale non solo l’attività amministrativa ma anche quella legislativa e politica … deve soggiacere alle regole poste, nella Costituzione o nel diritto trasnazionale2, a tutela della persona umana o a garanzia della vita democratica3”.

Da lì partono la riflessione sulla nuova dimensione tra giurisdizione e pace, tra giurisdizione e illiceità della guerra e le sue elaborazioni per trarre dal diritto internazionale e dai diritti umani alimento e lievito per un esercizio della giurisdizione anche interna che con quelle novità fosse in sintonia, ovviamente nel rispetto delle forme proprie dello Stato di diritto costituzionale.

4. Le sue analisi hanno fatto strada nella cultura dei giudici italiani e hanno trovato accoglimento nella giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione, chiamate a pronunciarsi su richieste di risarcimento dei danni alle vittime dei crimini commessi dalla Germania nazista durante l’occupazione successiva all’8settembre 1943 o a seguito di deportazione e di lavori forzati. La Corte di cassazione, con sentenze emesse tra il 2004 e il 2011 (ribadite da una sentenza del 3 maggio 2016), ha negato l’immunità alla Germania, riconoscendo la sussistenza della giurisdizione italiana nel caso in cui lo Stato estero, pur nell’esercizio di attività tipicamente sovrane (la guerra), avesse commesso atti configurabili quali crimini internazionali in quanto lesivi, appunto, di quei valori universali di rispetto della dignità umana che trascendono gli interessi delle singole comunità statali:il rispetto dei diritti inviolabili della persona umana ha assunto il valore di principio fondamentale dell’ordinamento internazionale e prevale su ogni altro principio o regola.

È noto che, con sentenza 3 febbraio 2012, la Corte internazionale di giustizia dell’Aja, in accoglimento del ricorso proposto dalla Germania contro l’Italia per mancato riconoscimento dell’immunità di uno Stato nell’esercizio della sua sovranità, ha dichiarato l’illegittimità dei provvedimenti giudiziari italiani nei confronti della Germania, disponendo che la Repubblica italiana mettesse nel nulla le decisioni adottate. Ciò è avvenuto con la L. 14 gennaio 2013, n. 5, che però è stata dichiarata incostituzionale dalla Consulta con sentenza 238/2014. per contrasto con gli artt. 2 e 24 della Costituzione, nella parte in cui obbliga il giudice italiano ad adeguarsi alla pronuncia della Corte dell’Aja. La Corte costituzionale ha affermato che i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona costituiscono un limite all’ingresso di norme internazionali con essi contrastanti, trattandosi di elementi identificativi e irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale italiano, per ciò stesso sottratti anche alla revisione costituzionale.

La barra è stata tenuta ferma dalla giurisdizione italiana e dalla Corte costituzionale, mentre la Corte internazionale di giustizia dell’Aja ha perso un’occasione per un avanzamento di diritto e per riaffermare la prevalenza della dignità umana sul potere dello Stato quando esso trasmoda nel crimine internazionale.

Siamo di fronte a quelle perduranti contraddizioni del diritto internazionale, su cui tante volte tornava Senese, che non inseguiva chimere astratte, ma aveva i piedi saldamente ancorati alla realtà ed era pienamente avvertito delle contraddizioni ancora irrisolte del diritto internazionale,sovente contrastato dalla forza politica dei vari governi e dalle forze economiche delle multinazionali, affrancate da ogni controllo pubblico.

Proprio per questo sollecitava a non arrendersi mai al potere del più forte, evidenziando che il diritto internazionale costituisce un “universo ove convivono regole dotate di in differente grado di effettività e di legittimità e nel quale sovente le regole con minor grado di effettività sono quelle con maggiore legittimità e viceversa”4; e sono queste ultime che vanno valorizzate e potenziate con la ricerca del consenso della più vasta opinione pubblica e dei movimenti per la pace, giacché “la lotta per i principi si rivela … non già l’impresa generosa di anime nobili al di fuori e al di sopra della storia, ma un’azione concreta per favorire un processo che ha come alternativa un disordine autodistruttore”5.

5. L’altro aspetto che mi preme accennare è la riflessione di Senese sui temi delle migrazioni e sull’involuzione della categoria della cittadinanza, che da strumento di rivendicazione di diritti è venuta trasformandosi in strumento di esclusione degli altri, dei diversi da noi, da contrastare e respingere quale che sia “il loro carico di infelicità, di bisogni e di speranze”.

Coglieva la crescente tensione tra diritti umani e cittadinanza, tensione che va superata in nome del diritto e dei diritti. E la sua sollecitazione era volta ad “abbassare la divaricazione tra universalità dei diritti e particolarità delle cittadinanze”.

Quella tensione – scriveva – è insieme una sfida per la costruzione del futuro.“Sfida e tensione che sono che sono state finora recepite in modo assai miope dalle politiche fin qui elaborate in particolare in Europa, con il fine di scoraggiare in linea di principio il flusso dell’immigrazione, senza una corrispettiva elaborazione di valide politiche di integrazione in società già di fatto multietniche. Un esempio clamoroso di questo atteggiamento puramente difensivo, arroccato … è l’istituto del diritto d’asilo, istituto secolare, che ha accompagnato la nascita delle moderne democrazie, consacrato in tutte le costituzioni democratiche moderne oltre che in precise convenzioni internazionali… Esso viene sempre più ristretto e sottoposto ad una serie crescente di vincoli, molti dei quali incidono anche sulle dinamiche di possibile integrazione di colui che richiede l’asilo, o di colui che lo ha già ottenuto.”

“Tale chiusura – evidenziava – comporta anche ricadute gravissime sul concetto stesso di democrazia … determinando in primo luogo uno sviluppo del razzismo, alimentato innanzitutto dal declassamento degli altri, visti come non-titolari di diritti universali, diseguali nei diritti e, attraverso una serie di salti logici del tutto frequenti nell’immaginario collettivo comune, addirittura antropologicamente inferiori”.

Era molto preoccupato per la spinta alla clandestinizzazione dell’immigrato, derivante dalla legislazione in materia di immigrazione, “che concorreva a determinava atteggiamenti di xenofobia e di razzismo. Razzismo e xenofobia – aggiungeva, che sono poi aumentati, a causa della paura generata dal simultaneo aumento della disoccupazione, dalla precarizzazione del lavoro, insomma da tutti quei fenomeni di crisi del vecchio stato sociale presenti in misura diversi in tutti i paesi dell’occidente, determinando un senso di insicurezza che può spingere alla mobilitazione contro i diversi, immaginati come minacce o semplicemente assunti come capro espiatorio di disagi e insicurezze generalizzati”.

“Nessuno può pensare di pretendere, ora e subito,frontiere totalmente aperte; occorre però essere coscienti del fatto che, se oggi non ci sono le condizioni economiche e sociali per riconoscere ad ogni essere umano lo “ius migrandi”, ciò costituisce una condizione di debolezza delle nostre democrazie, una contraddizione patente che inficia la legittimità dell’ordine nel diritto di autodeterminazione dei popoli.” Sembrano valutazioni scritte nei mesi scorsi con riferimenti alla reazionaria legislazione contro i migranti. Sono invece citazioni da una Lezione del maggio 1996 (sic!), svolta nell’ambito del corso di formazione e perfezionamento sul diritto dei popoli, organizzato dalla Fondazione Basso.

Salvatore Senese ci manca e ci mancherà molto. Le persone come lui non sono sostituibili, ma egli continuerà a rappresentare per molti di noi un esempio e uno stimolo.

Roma 23 ottobre 2019

Franco Ippolito

1 Diritti umani e costituzionalismo globale, Carocci 2011 pp. 123-124
2  “Strumento di ricognizione e di identificazione di quei valori-guida che devono segnare le finalità ultime dell’ordinamento giuridico” (Problemi del Soc. 2/84 p. 43).
3 Ivi, pp. 43-44, nonché voce Stato di diritto, in L. Violante (a cura di) Dizionario delle istituzioni e dei diritti del cittadino, Roma 1981 pp. 289 ss..
4 PdS p. 41
5 Ivi p. 51

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