Franco Ippolito, conclusioni al convegno ”Democrazia e Rule of Law in Europa Criticità e sfide aperte alla vigilia delle elezioni per il parlamento europeo”
Franco Ippolito, conclusioni al convegno “Democrazia e Rule of Law in Europa Criticità e sfide aperte alla vigilia delle elezioni per il parlamento europeo”
1. Elezioni del Parlamento europeo tra prospettive ideali e venti sovranisti
Siamo ormai prossimi alle elezioni per il Parlamento europeo, sempre importanti, ma questa volta decisive non solo per il futuro dell’Europa. Le guerre che stanno insanguinando l’Ucraina e la Palestina, la possibile rielezione di Donald Trump alla Presidenza degli Usa, i venti sovranisti e nazionalisti che soffiano in molti Paesi, provocando il deperimento della democrazia costituzionale, assegnano all’appuntamento di giugno un valore straordinario non soltanto per l’Unione europea, ma per il futuro del mondo nel quale vivranno le prossime generazioni.
Questo confronto fiorentino e quello del 12 aprile all’Università di Roma Tre sono stati promossi da organizzazioni di società civile, convintamente europeiste, per le quali «l’Unione europea è qualcosa di irrinunciabile», ma «deve cambiare rotta»[1]. Per cambiare rotta è indispensabile impegnarsi non soltanto per respingere ogni tentativo di ritorno all’indietro, ma anche operare per l’effettività dello Stato di diritto a livello nazionale e continentale.
La democrazia costituzionale – che è la forma più pregnante di espressione e realizzazione dello Stato di diritto – non consiste soltanto in periodiche elezioni, che costituiscono un misuratore autentico degli orientamenti politici e sociali soltanto in presenza di una società civile vigile e impegnata, di una cittadinanza attiva e partecipe, ciò che richiede un’opinione pubblica informata e pluralista e una stampa libera, non condizionata dalle logiche e dagli interessi del potere. Società civile viva, cittadinanza consapevole e impegnata e stampa libera presuppongono, a loro volta, pluralismo informativo, separazione dei poteri e garanzia dei diritti dei cittadini.
Esattamente ciò che fu scritto 250 anni fa nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: «Ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata e la separazione dei poteri non è determinata, è priva di Costituzione».
È questa l’essenza dello Stato di diritto, che da allora costituisce un connotato della civiltà europea e da sessant’anni uno dei valori fondanti dell’Unione europea, in stretta connessione con il rispetto della dignità umana e dei diritti umani, la libertà, la democrazia, l’uguaglianza. Valori che, tutti insieme, configurano un dover essere non ancora pienamente attuato e che, se non si riesce a contrastare il vento sovranista in azione, rischia di regredire nella vita reale, pur rimanendo solenne declamazione del Trattato e della Carta dell’Unione.
Questi principi escono dall’astratto e futuribile “dover essere” se sono in concreto applicati nell’ordinamento giuridico dell’Ue, cioè se sono coerentemente osservati e fatti vivere dalle istituzioni dell’Unione e di ogni Paese membro e se possono essere fatti pienamente valere da tutti dinanzi a un organo giurisdizionale.
Occorre subito dire che da quel “tutti” sono esclusi in troppi: le persone che si avvicinano ai confini europei, con la speranza di trovare un approdo di sopravvivenza, vengono di fatto escluse da tale possibilità, perché gli Stati membri dell’Unione fanno di tutto per impedire che i migranti abbiano la concreta possibilità di rivolgere istanze di protezione amministrativa e giurisdizionale.
Rinviando al prossimo incontro il tema dell’immigrazione, fin d’ora dobbiamo evidenziare che l’Europa, mentre si compiace delle sue Carte dei diritti, agli abitanti del Sud del mondo si presenta come una fortezza, che li respinge con il volto arcigno e crudele dei campi di detenzione pieni di profughi e di richiedenti asilo. Questi campi, finanziati da Paesi membri dell’Unione (a Lesbo, in Turchia, in Libia, tra qualche mese anche in Albania), sono la prova eclatante del fallimento delle politiche europee che, incapaci di governare l’immigrazione, si illudono di bloccarla, in modo velleitario e disumano, innalzando muri fisici e giuridici.
2. Lo Stato di diritto come precondizione di identità e di funzionamento dell’Ue
Sono note le definizioni di “Stato di diritto” elaborate progressivamente dai diversi organismi del Consiglio d’Europa e dell’Unione europea (Commissione di Venezia del CoE, sentenze della Corte di giustizia, regolamento sul meccanismo di condizionalità a protezione del bilancio e degli interessi finanziari Ue). In questa sede, appare opportuno sottolineare che, tra gli elementi sintomatici di violazione dei principi dello Stato di diritto (il cui nucleo centrale consiste nel fatto che i valori sopra indicati possono essere fatti valere pienamente dinanzi a un giudice indipendente), sono stati indicati – oltre alla restrizione di diritti politici e civili, alla compressione della piena libertà di opinione e di manifestazione, alla pressione e ai condizionamenti nei confronti della stampa e dei mass media ad opera del potere politico – le minacce all’indipendenza della magistratura e (a maggior ragione) l’ingerenza diretta o indiretta del potere politico sull’esercizio della giurisdizione, nonché la mancata assegnazione di risorse finanziarie e umane necessarie per il corretto funzionamento delle autorità giudiziarie che hanno il compito di contrastare decisioni politiche o amministrative arbitrarie.
In proposito, bisogna innanzitutto costatare la diffusa insufficienza della percentuale di bilancio nazionale destinato alla giustizia, nonostante che il diritto ad ottenere giustizia in tempi ragionevoli sia considerato un diritto fondamentale della persona, strumentale alla rivendicazione degli altri diritti, una sorta di “diritto ai propri diritti”. Uno stanziamento di bilancio che impedisca l’efficiente funzionamento dei servizi relativi alla giustizia compromette perciò i diritti fondamentali proclamati dalle costituzioni e dalle carte internazionali. Occorre cominciare a domandarsi se, nello Stato costituzionale di diritto, è ammissibile che sia la maggioranza politica a decidere la possibilità materiale di funzionamento dell’amministrazione giudiziaria o se, invece, non risulti necessario che siano le stesse costituzioni a dettare una normativa che sottragga alla discrezionalità dei parlamenti (cioè delle maggioranze politiche del momento) la decisione sulle spese per la giustizia.
Al di là di tali considerazioni relative all’effettiva e concreta indipendenza del sistema giudiziario, che riguardano molti Paesi, occorre riconoscere che, se si prendessero sul serio le predette indicazioni, nella lista dei Paesi di non completa vigenza dello Stato di diritto entrerebbero, oltre a Polonia e Ungheria, anche altri Paesi membri dell’Unione europea[2], tra cui l’Italia.
3. La situazione italiana
Nel nostro Paese è in atto una articolata strategia, che parte dalla diffusione del medesimo linguaggio che ha contrassegnato la costruzione dei regimi autoritari in Polonia e in Ungheria, basati sulla costruzione di un nemico, reale o inventato, individuato in chiunque non corrisponda all’immaginato componente dell’immaginaria nazione, intesa in senso etnico e religioso, la cui “volontà” viene posta a fondamento del potere dello Stato e, specificamente, della primazia del potere esecutivo come sua diretta espressione.
Tale strategia si sta sviluppando, proprio come è accaduto in Polonia e in Ungheria, nel potenziamento via via preponderante del potere di governo, con introduzione di norme e atti che incidono negativamente sulla qualità dello Stato costituzionale di diritto: prospettate riforme costituzionali che neutralizzano il Parlamento e svuotano i poteri di equilibrio del Presidente della Repubblica, atti normativi di compressione di diritti umani dei migranti, censure alla libertà di pensiero, uso sproporzionato della forza di polizia per controllare manifestazioni di protesta, critiche di esponenti di governo a giudici per legittime interpretazioni della legge non conformi alle opinioni di governo, addebito alla magistratura di rallentare e far perdere tempo all’azione di governo con proposizione di questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia, insofferenza verso controlli istituzionali della magistratura contabile e delle autorità indipendenti di garanzia, etc.
Atti e comportamenti ancora non costituenti quella “violazione persistente, sistemica e deliberata dei valori dell’Unione” realizzata in Ungheria e in Polonia, dove le ultime elezioni hanno consentito la formazione di un Governo di orientamento europeista, al quale auguriamo di poter riuscire nella difficile opera di ricostruzione dello Stato di diritto, compromesso e lesionato dalle politiche nazionaliste e sovraniste dei precedenti governi. Tuttavia, considerata la sottile ma continua erosione di libertà e di diritti, è agevole constatare che il modello polacco-ungherese costituisce per il Governo italiano un punto di riferimento e di ispirazione, per sintonia di vocazione nazionalistica e sovranistica, comprensiva della pretesa del primato del diritto interno sul diritto dell’Unione.
Al fine di scongiurare che altri Paesi siano contagiati dai precedenti ungheresi e polacchi, occorre la massima mobilitazione democratica in questa vigilia elettorale e la più attenta vigilanza dell’opinione pubblica democratica, anche per impedire il protrarsi di comportamenti ambigui e tentennanti delle istituzioni europee verso la deviazione di Paesi membri, come è accaduto soprattutto ad opera del Consiglio europeo e della stessa Commissione, che hanno riduttivamente finalizzato soltanto alla protezione del bilancio e degli interessi finanziari il meccanismo sulla condizionalità dello Stato di diritto, adottando peraltro provvedimenti e decisioni incoerenti e contraddittori[3].
Per evitare ulteriori e future incertezze e ambiguità, è urgente innanzitutto applicare le clausole di condizionalità a ogni erogazione di beneficio da parte dell’Ue ai singoli Stati membri e sanzionare con serietà le violazioni dei principi dello Stato di diritto.
Più in generale, occorre che la tenuta dello Stato di diritto sia davvero considerata una precondizione essenziale per il funzionamento dell’ordinamento europeo nel suo complesso. E ciò sia per l’ingresso nell’Ue dei Paesi oggi candidati, i quali devono dimostrare la propria adesione ai valori fondamentali dell’Unione (principi di Copenaghen), sia – e a maggior ragione – per la permanenza dello status di Paese membro dell’Ue, come risulta dal meccanismo (pur gravemente difettoso e perciò da riformare) previsto dall’art. 7 TUE.
Se può infatti essere comprensibile una qualche forma di benevolente tolleranza verso Stati canditati all’adesione all’Ue che hanno difficoltà ad adeguarsi in tempi accelerati a standard di Stato di diritto e di democrazia previsti dal TUE e dalla Carta dei diritti fondamentali, non è giustificabile alcun atteggiamento di accomodamento compromissorio verso Paesi membri dell’Ue che pretendono di affermare, con il proprio sovranismo, il primato del diritto interno sul diritto comunitario, utilizzando però i benefici del mercato unico e delle risorse comuni, e contestualmente teorizzando e praticando la “democrazia illiberale”, che costituisce nient’altro che un camuffamento linguistico dell’autoritarismo, incompatibile con i valori dell’Unione.
Come ha efficacemente voluto sottolineare la Corte di giustizia, nel motivare il rigetto dei ricorsi di Polonia e Ungheria avverso al regolamento sulla condizionalità (sentenze nn. 156 e 157 del 2021), «quando uno Stato candidato diventa uno Stato membro, aderisce a una costruzione giuridica che poggia sulla premessa fondamentale secondo cui ciascuno Stato membro condivide con tutti gli altri Stati membri, e riconosce che questi condividono con esso, i valori comuni contenuti nell’articolo 2 TUE, sui quali l’Unione si fonda. (…) Ne consegue che il rispetto da parte di uno Stato membro dei valori contenuti nell’articolo 2 TUE costituisce una condizione per il godimento di tutti i diritti derivanti dall’applicazione dei trattati a tale Stato membro. (…) Infatti, il rispetto di tali valori non può essere ridotto a un obbligo cui uno Stato candidato è tenuto al fine di aderire all’Unione e al quale potrebbe sottrarsi dopo la sua adesione».
Va dato atto alla Corte – in coerenza con il ruolo di artefice del diritto comune e del suo primato sul diritto degli Stati membri, affermato sin dagli anni sessanta del secolo scorso – di avere proseguito, senza tentennamenti, nella coerente costruzione dell’Unione come spazio di diritto e di giustizia, superando i compromessi al ribasso, impregnati di logica intergovernativa, che hanno spesso contrassegnato le decisioni del Consiglio europeo e, per conseguenza, l’operato della Commissione.
Va anche apprezzato il ruolo propulsivo, di stimolo e talvolta di denuncia, svolto dal Parlamento europeo, che ha ripetutamente espresso in maniera netta (cfr. risoluzione 18 marzo 2022) il proprio rammarico per l’incapacità del Consiglio di compiere progressi significativi nel far rispettare i valori dell’Unione nelle procedure in corso, ai sensi dell’art. 7, in risposta alle minacce ai valori comuni europei in Polonia e Ungheria – incapacità che continua a compromettere l’integrità dei valori comuni, la fiducia reciproca e la credibilità dell’Unione nel suo complesso.
Gli eurodeputati hanno anche, con reiterate risoluzioni (per tutte, cfr. ris. 18 gennaio 2024), criticato severamente la decisione della Commissione di sbloccare fino a 10,2 miliardi di euro di fondi precedentemente congelati, nonostante che l’Ungheria non abbia adottato le riforme richieste sull’indipendenza della magistratura.
4. La pace: presupposto ed esito dello Stato costituzionale di diritto
Per rafforzare le posizioni assunte dal Parlamento europeo e le decisioni adottate dalla Corte di giustizia, è indispensabile un forte sostegno della società civile, anche per dar seguito a quanto emerso dai lavori della Conferenza sul futuro dell’Europa, al fine di introdurre ulteriori meccanismi volti a garantire che i valori e i principi sanciti nei Trattati dell’Ue e nella Carta dei diritti fondamentali dell’Ue siano considerati condizioni non negoziabili e irreversibili, e debbano perciò essere pienamente rispettati in tutti gli Stati membri, senza eccezioni, con previsione di precise condizioni e termini certi per l’adeguamento in caso di violazione; nonché ad estendere l’ambito di applicazione dei meccanismi sulla condizionalità dello Stato di diritto a nuovi ambiti, indipendentemente dalla loro rilevanza per il bilancio dell’Ue.
Abbiamo il dovere di preservare e rafforzare lo Stato costituzionale di diritto (fondato sulla primazia del valore e della dignità della persona rispetto agli Stati, alle nazioni e agli apparati di potere) come una componente centrale e peculiare del patrimonio europeo, essenziale affinché tutti coloro che vivono nel Continente possano godere della pienezza dei diritti e del benessere solidale assicurato dalla democrazia costituzionale. Ma ciò è anche indispensabile affinché l’Europa possa far dimenticare il proprio passato, caratterizzato da colonialismi predatori e da totalitarismi razzisti con tendenze imperiali, che hanno più volte funestato il mondo. Affinché l’Ue possa riacquistare piena credibilità agli occhi di tutti i popoli (soprattutto di quelli del Sud del mondo) e tornare a rappresentare un punto di riferimento importante per quei Paesi che auspicano uno sviluppo non condizionato da schieramenti geostrategici tra potenze, è necessario che l’Unione sia artefice e protagonista di pace.
Con questa missione fu concepita la futura Europa nel Manifesto di Ventotene, nel pieno di una devastante guerra mondiale, che sconvolse il mondo, per la seconda volta in meno di trent’anni, per responsabilità dei nazionalismi dei Paesi europei.
L’attuale clima di guerra, come sempre accade quando le armi prendono il posto del negoziato, alimenta contrapposizioni e radicalizzazioni, paure e timori, demagogicamente utilizzati da nazionalisti e sovranisti per superare e archiviare i valori dello Stato di diritto. La pace non solo crea l’ambiente propizio al confronto, alla tolleranza, al pluralismo e al dialogo, ma costituisce – come è stato efficacemente ribadito da autorevole dottrina costituzionale – il «prius assiologico indefettibile di ogni diritto fondamentale e di ogni dovere inderogabile»[4].
La pace è, allo stesso tempo, sia il presupposto perché possa vivere e svilupparsi lo Stato costituzionale di diritto sia l’esito della convivenza tra diversi (Stati, gruppi e persone) fondata sui valori dello Stato costituzionale di diritto. Proprio per tale ragione, la pace è stata indicata quale obiettivo primario dell’Unione, che – come solennemente afferma l’art. 3 TUE – «si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli», aggiungendo che «Nelle relazioni con il resto del mondo l’Unione (…) Contribuisce alla pace, alla sicurezza, (…) alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli (…) e alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, in particolare al rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite», dal cui preambolo emerge chiara la consapevolezza che sono il disconoscimento e il disprezzo dei diritti umani a condurre ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità.
Le vicende degli ultimi anni hanno, purtroppo, mostrato l’assenza di qualsiasi significativa iniziativa europea per (almeno) tentare di porre fine alle guerre in atto e promuovere negoziati finalizzati al ristabilimento della pace. Eppure non sono mancate le sollecitazioni, anche autorevoli[5], a promuovere una forte iniziativa diplomatica per esplorare ogni possibilità di realizzare una conferenza internazionale, a somiglianza di quella svoltasi a Helsinki nel 1975, al fine di prefigurare e realizzare un ordine internazionale di sicurezza e di pace.
5. Necessità e urgenza della modifica dei Trattati
I molti segnali che hanno giustamente allarmato il Parlamento europeo sulla gestione del meccanismo di protezione dello Stato di diritto da parte del Consiglio e della Commissione, le perduranti incertezze e contraddizioni in materia di politica estera, la mancanza di qualsiasi autonoma iniziativa di pace hanno reso clamorosamente evidenti i limiti di identità e di azione politica connessi agli attuali Trattati e, perciò, l’indispensabile esigenza di profonde riforme dell’Unione in senso federalistico, soprattutto con riferimento al Consiglio europeo.
Gli attuali limiti politici e strategici dell’Ue sono sotto gli occhi di tutti e permarranno sino a quando l’Unione non saprà darsi una struttura politica capace di esercitare effettiva sovranità politica, ciò che richiede un’adeguata modifica dei Trattati al fine di far prevalere l’interesse dell’Unione sugli interessi particolaristici e sui sovranismi dei singoli Stati. Taluni di essi, nell’attuale ordinamento e funzionamento del Consiglio europeo, trovano possibilità non solo di ostacolare e impedire ogni cammino autenticamente unitario, ma operano per riportare l’Unione a semplice mercato economico. Prospettiva che rischia di avverarsi più facilmente se si procederà all’ampliamento quantitativo con i prospettati nuovi allargamenti, senza aver preventivamente proceduto alla modifica dei Trattati per potenziare e approfondire la struttura qualitativa del governo dell’Unione, a cominciare dal necessario (anche se non sufficiente) superamento del voto all’unanimità, che nei fatti significa diritto di veto paralizzante da parte di ogni Stato membro dissenziente.
1. E. Granaglia e G. Riva (a cura di, per Forum Disuguaglianze e Diversità), Quale Europa. Capire, discutere, scegliere, Donzelli, Roma, 2014, p. VII.
2. Sarebbe utile realizzare un osservatorio delle pratiche e degli eventi che, nei diversi Paesi dell’Unione, appaiono attuati in violazione dello Stato di diritto. La costruzione di una prima mappa potrebbe essere promossa e coordinata da MEDEL tra le varie associazione aderenti, per segnalare quanto sta avvenendo nei diversi Paesi da parte dei vari governi. Senza, ovviamente, trascurare i cedimenti della stessa magistratura verso sollecitazioni sovraniste o populiste.
3. Nel Consiglio europeo di dicembre 2023 e gennaio 2024, Viktor Orbán ha strumentalmente minacciato il veto al bilancio dell’Ue, che doveva essere modificato per stanziare i nuovi fondi a favore dell’Ucraina. La minaccia di provvedimenti più drastici nei confronti dell’Ungheria ha indotto Orbán a uscire dall’aula per consentire l’approvazione degli aiuti all’Ucraina. Il penoso escamotage ha momentaneamente consentito di uscire dalla contingente impasse, ma non ha affatto risolto il problema di fondo della compatibilità del sovranismo ungherese con il diritto dell’Unione.
4. A. Ruggeri, La pace come bene assoluto, indisponibile e non bilanciabile, il diritto fondamentale a goderne e il dovere di preservarla ad ogni costo, in Consulta online, editoriale del 27 febbraio 2022 (https://giurcost.org/contents/giurcost/editoriali/editoriale27022022.pdf).
5. Vds. l’intervento al Consiglio d’Europa del Presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella (27 aprile 2022), il quale, nel proporre una “Helsinki 2”, ribadì la necessità di «uno sforzo creativo per la salvaguardia della pace», al fine di non arrendersi alla «logica della guerra, che consuma la ragione e la vita delle persone e spinge a intollerabili crescendo di morti e devastazioni. Che sta rendendo il mondo più povero e rischia di avviarlo verso la distruzione. E allora la richiesta di abbandonare la prepotenza che ha scatenato la guerra. E allora il dialogo. Per interrompere questa spirale».